Si possono avere opinione diverse, ma il referendum in Kurdistan non era illegale

Adriano Sofri

Dopo le arroganti condanne politiche, quel che resta del mondo civile deve schierarsi a difesa dei curdi

Erbil. Vediamo. Il Kurdistan iracheno, che è da 25 anni una regione autonoma dell’Iraq, dopo aver perseguito a lungo un referendum e averlo rinviato nel 2014 per far fronte all’avanzata dello Stato islamico, l’ha indetto e tenuto lo scorso 25 settembre: nel referendum chiedeva ai cittadini, del proprio territorio e delle aree a maggioranza curda contese con Baghdad, se auspicassero l’indipendenza. I cittadini hanno risposto in numero schiacciante di sì. Nessuna dichiarazione unilaterale di indipendenza era legata al risultato. I promotori avevano detto e continuano a dire che all’indomani del referendum sarebbe iniziato un confronto con lo stato iracheno e con la comunità internazionale – “di due anni”, hanno specificato – che nelle loro intenzioni avrebbe avuto al centro l’indipendenza. Il governo regionale curdo (Krg) è stato protagonista, nel nord dell’Iraq, della resistenza all’Isis, ha occupato con le proprie forze le “zone contese” disertate dall’esercito iracheno, e da ultimo ha collaborato decisivamente con il rimpannucciato esercito iracheno per la liberazione di Mosul, operando entro la cerchia di villaggi e città a maggioranza curda, cristiana o yazida, con un accordo con il governo di Baghdad che prevedeva esplicitamente l’assegnazione al Krg dei territori liberati dai peshmerga curdi. In capo agli oltre tre anni di guerra all’Isis, che va consumando le ultime battaglie importanti (come a Hawija, città a sud-ovest di Kirkuk, dalla quale ancora una volta migliaia di persone fuggono consegnandosi ai curdi, compresi gli aderenti, veri o sospetti, all’Isis, per paura di finire nelle mani delle milizie sciite irachene) il Krg ha dunque interpellato col voto la propria popolazione, minoranze comprese, per presentarne il risultato nel negoziato coi suoi interlocutori iracheni e internazionali.

 

Per aver mosso una simile sfida – lontanissima formalmente dal referendum catalano, indetto come la premessa di una dichiarazione unilaterale di indipendenza – il Krg si trova di fronte a un blocco di cielo e di terra da parte degli stati confinanti (manca il blocco navale, perché il Kurdistan è orfano di mare), a minacce di intervento militare e manovre militari ostentate ai suoi confini, svolte insieme da turchi, iracheni e iraniani, e a una sequela di altre misure d’assedio economico e armato. Al confine iraniano-curdo, le manovre sono svolte insieme dai Guardiani della rivoluzione iraniani e dalle milizie sciite Hashd al Shaabi irachene, loro affiliate. Rumori di guerra, tutt’altro che teatrali. Nel pomeriggio di lunedì, di fronte alla gara di ultimatum da Baghdad, Teheran e Ankara, i due maggiori leader curdi, Masud Barzani e Ali Rasul Kosrat hanno tenuto a Kirkuk – la gran città che costituisce, non solo per il petrolio, la vera posta dello scontro – una riunione d’urgenza con tutti i comandanti dei peshmerga e della sicurezza curda. La presenza rarissima di Barzani a Kirkuk è per sé il segno della gravità della minaccia e della determinazione della risposta. Qualunque sviluppo militare – qualunque “guerra” – avrebbe appunto per luogo decisivo e per posta Kirkuk, dove un’occupazione “berlinese” o libanese fra i contendenti sarebbe la condizione per annullare il controllo sulla città, da oltre tre anni saldamente curdo.

 

Si possono avere opinioni diverse sul referendum curdo. Opinioni, appunto: che fosse intempestivo, che fosse inopportuno, che non tenesse abbastanza conto della fragilità e dell’aggressività del contesto geografico e ideologico… Opinioni diverse esistevano nello stesso Kurdistan, o fra i curdi degli altri stati: durissima è la contrarietà del Pkk curdo-turco (che ha una consistente presenza anche nel Krg) che vi ha visto una iniziativa di Barzani per perpetuare il proprio potere e compensare con la mobilitazione nazionalista il discredito del proprio partito e la crisi economica e sociale. Ma la consultazione referendaria non era illegale, se non per una Corte costituzionale irachena che ha ignorato le violazioni costituzionali (contate a parecchie decine) nei rapporti col Kurdistan, e in particolare la mancata attuazione del dettato della Costituzione del 2006 sulla soluzione referendaria dello statuto di Kirkuk e delle altre zone contese. Le potenze confinanti – Iran e Turchia, oltre alla Siria di Assad – hanno denunciato il referendum curdo come un attentato alla propria sicurezza, sufficiente a meritare una contromisura militare. Più sconsideratamente, la condanna del referendum è venuta dagli Stati Uniti, dalla segreteria delle Nazioni unite, e da una intontita Unione europea: non l’espressione di una preoccupazione o una raccomandazione di responsabilità, ma una condanna, ribadita (per esempio con veemenza da Tillerson) dopo che il referendum si era svolto, nell’ordine più pieno e perfino festoso, e con un risultato inequivocabile e da nessuno contestato.

 

Si è parlato per la Catalogna di un doppio errore: di Madrid e di Barcellona, che ha condotto a una situazione pressoché senza uscita, dunque una tragedia. Ebbene: si può parlare anche per il referendum curdo di un doppio errore, ma in un senso affatto diverso e, occorre sperare, con una ragionevole via d’uscita ancora aperta. Un errore l’ha compiuto Barzani e con lui i suoi principali alleati, come quel rispettatissimo Kosrat che gli ha assicurato, con l’assenso di un Puk, il partito di Suleymanyah e Kirkuk, molto riluttante, la forza della propria autorità militare. Un errore di previsione. Hanno creduto a tal punto ai meriti accumulati combattendo contro l’Isis e al legame vitale con la coalizione guidata dagli americani – la coalizione agendo dal cielo, i curdi da terra – da non immaginare che l’ostilità scontata al referendum degli sciiti di Baghdad e dell’ala militare, l’onnipotente al Quds, di Teheran, avrebbe contagiato anche un Erdogan allo sbaraglio e, soprattutto, le Nazioni unite e l’“Occidente”. Sbagliare una previsione in politica è grave, ma è un errore con forti attenuanti. Il referendum non era una mossa ultimativa, e d’altra parte la durezza verbale della reazione occidentale, inopinatamente allineata all’oltranzismo della Baghdad sciita e dell’Iran, è apparsa come un vero voltafaccia. Ben diverso mi sembra l’errore opposto, quello di americani, Onu ed Europa. I quali hanno alzato sempre più la voce, accreditando l’interpretazione del referendum come di una nuova miccia accesa sotto la santabarbara mediorientale, e addirittura simulando di temere che avrebbe comportato una diserzione dei curdi dall’impegno contro l’Isis. Che cosa li ha indotti a un simile chiasso? L’arroganza. La convinzione, assolutamente complementare a quella di Baghdad Teheran e Ankara, che il Krg e i suoi capi fossero malleabili a piacere: che il muso duro internazionale, e dei loro “migliori amici”, li avrebbe comunque, in extremis, costretti alla ritirata. Barzani non aveva immaginato di trovarsi di fronte a una ostilità internazionale così schiacciante. Americani – e, accodati, Onu e Europa – non avevano immaginato che Barzani e Kosrat e i loro colleghi avrebbero resistito fino all’ultimo, e tenuto il referendum. Col risultato disastroso che la durezza offensiva impiegata nell’illusione di piegare la decisione curda si è tramutata nell’alibi insperato dei nemici locali dei curdi, per una volta affratellati dalla voglia matta di infliggere loro una punizione esemplare, che valga anche per i curdi di casa loro: del sunnita Erdogan nel sud-est turco e nel Rojava siriano, dello sciita Qassem Soleimani nell’Iran di Sanandaj e Mahabad. Da questo disastro da apprendisti stregoni si sono tenuti fuori, oltre agli Emirati, Israele e la Russia, attenuando l’accerchiamento dei curdi e però non contribuendo senza contrasti alla simpatia per la loro causa. La Russia, in particolare, la vera anima della Russia di Putin, Rosneft e Gazprom, ha ribadito il proprio ingente investimento nel Krg, che vale almeno quanto una fornitura d’armi a Erdogan e a Teheran.

 

La domanda intanto è: davvero le istituzioni dell’Unione europea, e lo stesso Parlamento europeo, davvero i governi italiano e degli altri paesi d’Europa non sanno pronunciare una denuncia limpida delle minacce verbali e pratiche di affamare, isolare e muover guerra a un governo regionale autonomo che ha avuto l’ardire di interpellare, del tutto democraticamente in questa circostanza, il proprio popolo sul suo desiderio di ottenere l’indipendenza? La domanda è questa. Non ha a che fare con i dibattiti universali sulla categoria delle secessioni, né con le pensose vacillazioni di teste sul rischio di destabilizzare una parte di mondo destabilizzata fino alle viscere, né con le superstiziose litanie sull’intangibilità dei confini. I confini fra Siria e Iraq furono cancellati in un gran tripudio dai bulldozer dei miliziani nerovestiti dell’Isis, che organizzarono e filmarono caroselli a immortalarne la fine, inauguratrice dell’universale Califfato: e il mondo lasciò fare, e Deir Ezzor è ancora lì a giocare con la sabbia. Di tutti i confini si dovrà parlare nei prossimi due anni e oltre, e forse l’indipendenza del Krg accetterà di mutarsi in un altro nome e un altro fatto. Ma ora quel po’ di mondo ancora civile e non vile dovrebbe dire alto che il Kurdistan non si tocca.

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