LaPresse/Xinhua

Referendum alle porte tra retorica, battaglie e bandiere 

Adriano Sofri

Lo strano effetto che fa guardare l'assedio di Barcellona da uno stadio curdo

Erbil. Fa un effetto strano guardare dal Kurdistan iracheno, sull’orlo del suo referendum e, secondo un folto numero di potenti confinanti e sconfinanti, sull’orlo della destabilizzazione della regione (destabilizzare questo medio oriente non è impresa da poco), fa uno strano effetto dunque guardare all’assedio di Barcellona. Fa tutto parte dei lussi che l’Europa si permette – come il più frivolo, il referendum di Cameron: l’Europa ogni tanto esce fuori di sé. A Baghdad come a Madrid si decreta che il referendum è incostituzionale, ma la Costituzione irachena, quanto alla distribuzione delle risorse con il governo regionale curdo e al destino delle terre contese (“l’articolo 140”, è il suo nome tecnico) è violata da anni. Almeno dieci anni, per il referendum su Kirkuk, per esempio. In questi giorni chi fa la voce più grossa contro il referendum è Erdogan, che contemporaneamente si propone come garante dei diritti costituzionali dei curdi e delle altre minoranze in Iraq: da un pulpito che non potrebbe essere più competente.

 

In tanti anni di inerzia e rinvii molte cose sono successe, e una specialmente: l’assalto e l’instaurazione dello Stato islamico, e i tre anni e mezzo di guerra condotta dalla coalizione internazionale dal cielo e dai curdi (solo da ultimo efficacemente dagli iracheni) per terra. I curdi hanno occupato e difeso quelle “terre contese” che altrimenti la fuga e i tradimenti dell’esercito iracheno avrebbero abbandonato al Califfato, a cominciare dalla favolosa Kirkuk, e hanno dichiarato da subito che non le avrebbero più lasciate, fino appunto alla convocazione popolare. Difficile sostenere che non abbiano il diritto di far pronunciare la popolazione, tutta, di qualunque religione e nazione, in un referendum che non decide ma consulta e sulla base del risultato va a negoziare il proprio desiderio di indipendenza. A New York in questi giorni premevano altre questioni, e del referendum curdo si è trattato poco. Macron si è barcamenato, fra l’omaggio al diritto democratico e l’auspicio dell’unità dell’Iraq. Fuori dall’assemblea, i russi hanno fatto sapere che si pronunceranno sul referendum dopo il suo risultato, che logicamente è un paradosso eleatico, praticamente una licenza di svolgerlo. Gli altri hanno usato toni contrari duri o allarmati, e la Turchia non ha esitato ad associarsi a Iran e Iraq, trasformandosi in una specie di appendice della teocrazia sciita. I curdi, e personalmente il loro presidente (prorogato a oltranza) Masud Barzani, si sarebbero aspettati qualche appoggio in più, dal Parlamento europeo per esempio, dove i solidali sono restati pochi e le autorità istituzionali hanno scelto il più stucchevole conformismo. Soprattutto si sarebbero aspettati più silenzi diplomatici, che valessero qualche assenso di fatto. Sincero o ipocrita, il coro di deprecazioni del referendum e dei suoi rischi, se non avranno ottenuto il concreto risultato di revocarlo, avranno ottenuto quello opposto: di offrire a chi scalpita per scatenare nuove guerre o allargare le vecchie un pretesto per ritenersi investiti della volontà internazionale. Ieri c’è stato un segno eloquente per chi abbia seguito questa geografia: gli iracheni, con l’appoggio aereo della coalizione, hanno avviato la battaglia per la riconquista di Hawija. Ne ho scritto tante volte ma so di non poter contare sulla memoria dei lettori (e sulla stessa loro esistenza): Hawija, grossa città a una quarantina di km a ovest di Kirkuk, è ancora in mano all’Isis, che se ne avvale per minacciare Kirkuk e la strada per Baghdad. Continuamente rinviata per dubbie ragioni di scacchiera, la battaglia per la riconquista di Hawijia e della vasta zona di villaggi che ne dipendono è stata minuziosamente preparata da anni dai comandi congiunti di iracheni e curdi. Questi piani prevedevano una controffensiva portata a sud dalle forze irachene e a nord dalle curde, che peraltro non hanno mai avuto rivendicazioni territoriali su Hawija, araba e in grandissima maggioranza sunnita. L’offensiva di ieri ha invece escluso i curdi. I quali possono congratularsi di essere stati esonerati (finché dura) da una battaglia in più, cui peraltro sono interessati non solo perché Hawija è la base di partenza del terrorismo verso Kirkuk, ma perché gli sfollati di Hawija avevano già riempito i campi curdi, specialmente quelli di Dibaga, e ora potrebbero arrivarne decine di migliaia in più – in pieno referendum.

  

L’ostacolo più forte al referendum non è tuttavia internazionale ma interno, nelle rivalità dei partiti-famiglie e nei rancori personali. Ci si accontenta di spiegare l’aggressività con l’interesse economico. C’è stata una lunga stagione in cui tutto voleva spiegarsi col petrolio, e ha ancora i suoi nostalgici, sacra petrolii fames. Anche il nome di Kirkuk va sempre con la didascalia sulla ricchezza petrolifera: in realtà tutto il Kurdistan si è scoperto ricco di petrolio e ancora più di gas, e per la sua gente Kirkuk è piuttosto la Gerusalemme curda. Nemmeno il forsennato invasamento jihadista ha ammonito su quanto valgano moventi psicologici, religiosi, superstiziosi, ideali, al punto di far scegliere l’abnegazione e di far corteggiare la morte. I curdi, che hanno dalla loro una migliore laicità, una antica passione per la politica – quella che li fa distinguere fra “sciiti, sunniti e curdi” – hanno anche una vocazione irresistita alla divisione, e quasi adolescenziale, capace di passare di colpo dalla furia rabbiosa all’abbraccio sentimentale. Ce n’è stato uno spettacolo abbastanza riuscito – forse non abbastanza ancora – mercoledì nello stadio di Suleymanya, la grande città carica di gloria militare e soprattutto intellettuale e artistica che è il feudo della dinastia dei Talabani e del loro partito, il Puk, rivale del partito-dinastia di Erbil dei Barzani. I due schieramenti collaborano nel governo regionale, ma ciascuno col proprio territorio, i propri posti di blocco, i propri eserciti e le proprie bandiere; e col ricordo, vivissimo ancora negli anziani, della guerra civile degli anni ’90 in cui si massacrarono a migliaia. In Kurdistan infatti gli anziani non sono anziani, sono veterani, ciascuno con una faccia che sembra studiata a illustrare il senso del nome veterano: chiedete ai fotografi.

 

In quello stadio, per la prima volta, Barzani ha dunque tenuto il suo discorso con le figure storiche del partito rivale sedute accanto a lui, dalla gran signora Hero Talabani al leggendario Ali Rasul Kosrat. Barzani ha cantato la gloria di Suleymanya, ha rimpianto l’assenza del vecchio “Mam Jalal”, lo “zio Jalal” Talabani, ricoverato fuori dal paese, come di un fratello maggiore che aveva mostrato la strada, ha promesso il perseguimento dell’indipendenza entro i prossimi due anni. Retorica, certo, buona retorica, di quella di cui i popoli in certe stagioni si saziano e su cui certi paesi si costruiscono. E cui anche i capipopolo più induriti dal tempo e dell’abitudine finiscono a volte per credere di nuovo, quando il vento soffia. Qui il vento soffia: bisogna ritagliare otto buchi rotondi nelle bandiere perché il vento ci passi dentro e non le strappi via. C’erano forse ventimila persone nello stadio, e almeno tre volte tante bandiere. Molti, ma la metà che alla festa per il referendum di Dohuk, città tutta legata a Barzani. Sulaymanya ha scetticismi e rancori tenaci. E’ facile prevedere che saranno molto meno numerosi i votanti per il referendum qui, perché l’amore per l’indipendenza cede spesso all’ostilità per Barzani. Vi ricordate Toti Scialoja: il sogno segreto dei corvi di Orvieto è mettere a morte i corvi di Orte. E i partecipanti dello stadio di Suleymanya erano un po’ come quei tifosi accaniti che mettono da parte i cartelli soliti per una volta, perché gioca la nazionale, ma domani ricomincia il campionato. Qualche partito in affanno, Gorran, o l’islamico Komal hanno deciso di lucrare sui contrari, chiedendo di rinunciare al referendum. Hanno anche convocato una contromanifestazione, non pervenuta. Sono anch’io, a mio modo, un po’ giornalista, e avevo letto che l’inviato dell’Economist non aveva trovato “nemmeno uno”, al bazar di Suleymanya, che dicesse che sarebbe andato a votare. Ne ho interpellati parecchi, al bazar di Suleymanya, di cui sono frequente avventore e cliente: naturalmente, l’inviato aveva scritto una fesseria.