Turchia, marcia di protesta delle opposizioni. Foto LaPresse/Reuters

L'essenza della politica nella lunga marcia turca per la giustizia

Adriano Sofri

In cammino dal 15 giugno scorso, decine di migliaia di persone seguono l’appello deliberatamente gandhiano e nonviolento di Kemal Kilicdaroglu, leader del Partito repubblicano del popolo 

La pratica della politica, dell’informazione e della stessa vita quotidiana italiana è poco incline a guardare che cos’è la politica o l’informazione e la stessa vita quotidiana appena un po’ più lontano. Figure seccanti, come quel Liu XiaoBo e il suo cancro terminale al fegato, il complemento ideale di un premio Nobel remoto, messo fuori di galera, in un ospedaletto di provincia al confine con la Corea del nord, perché non risulti crepato in cella. Figure seccanti, come Nuriye Gülmen e Semih Özakça, docente universitaria lei e maestro elementare lui, che digiunano da 113 giorni dopo essere stati licenziati e poi incarcerati: prendono solo acqua zuccherata e sono allo stremo. Manifestazioni coraggiose come la marcia per i diritti e la giustizia da Ankara a Istanbul che dal 15 giugno compiono, a piedi, alcune decine di migliaia di persone all’appello deliberatamente gandhiano di Kemal Kilicdaroglu, leader del Partito repubblicano del popolo, il più antico e forte partito all’opposizione al regime dell’Akp di Erdogan.

  

La marcia raccoglie lungo il cammino la solidarietà di tanti che prendono coraggio e lo scherno di altri che la provocano: inermi e minacciati gli uni, forti della forza squadrista gli altri. Erdogan, che chiama i marciatori complici del golpismo di Fethullah Gülen, ha detto che se possono manifestare è solo per una sua concessione. I camminatori si attengono a un codice di comportamento strettamente nonviolento – applaudire i contestatori, scandire il solo motto “Popolo, diritti, giustizia”. Alle loro file si uniscono gli aderenti del Partito democratico del popolo, lo Hdp cosiddetto “filocurdo”, i cui massimi co-dirigenti, Selahattin Demirtas e Figen Yuksekdag, e molti parlamentari e sindaci, sono in galera. La marcia vuole arrivare, in capo a oltre 450 km, fino al carcere della capitale in cui è recluso Enis Berberoglu. Berberoglu, 60 anni, già direttore del quotidiano Hurriyet, parlamentare e numero due del Partito repubblicano del popolo, è stato condannato a 25 anni con l’accusa di aver passato ai giornalisti di Cumhuriyet, Can Dundar ed Erdem Gul, a loro volta incarcerati, le immagini dei camion di armi e munizioni fatti transitare dai servizi turchi alla volta di islamisti siriani, dal confine con la Siria nel 2014. Radio Radicale attraverso Mariano Giustino ha l’enorme merito di trasmettere quotidianamente notizie della marcia. E’ un modo per ricordarsi che cosa si può guadagnare e perdere con la politica. In Turchia dallo scorso 15 luglio sono stati licenziati 4 mila magistrati e 150 mila dipendenti pubblici. 51 mila persone sono state incarcerate. Fra loro 158 giornalisti. Vedo che la parlamentare socialista italiana Pia Locatelli ha deciso di partecipare all’ultima tappa della marcia: non so se altri intendano farlo. Certo, bisogna camminare a lungo e sotto il sole di un’estate caldissima. Soprattutto, bisogna ricordarsi che cosa può essere, o che cosa può diventare, occuparsi di politica, o di informazione, o vivere una vita ordinaria di docenti, insegnanti, avvocati, magistrati, militari, poliziotti, impiegati. Disgraziato il paese che ha bisogno di donne e uomini coraggiosi. Spacciato il paese che non se ne ricorda nemmeno più.