Foto di jan Sefti via Flickr

Gli storni del Kurdistan

Adriano Sofri

I cacciatori-raccoglitori di storni dicono che il loro numero è diminuito fortemente in questi anni per lo spavento del frastuono delle armi e per i cieli neri e puzzolenti di petrolio incendiato

Malvisti da noi, gli storni migrano nel Kurdistan provvisoriamente iracheno fra dicembre e febbraio, soprattutto nella zona di Erbil. I cacciatori-raccoglitori di storni dicono che il loro numero è diminuito fortemente in questi anni per lo spavento del frastuono delle armi e per i cieli neri e puzzolenti di petrolio incendiato. Si chiamano Rishula in curdo, Zarzur in arabo – se non sbaglio. Vengono catturati al tramonto nei campi, attirati nelle reti da esche di grano e sesamo. Sono ritenuti da alcuni commestibili e anche prelibati. Ma soprattutto vengono portati in città per il rito della liberazione. Sono ammucchiati in gabbie rudimentali su carretti. La gente paga un riscatto e li rimette in libertà. Ogni storno liberato costa 1.000 dinari, circa 75 centesimi di euro. Chi li libera pronuncia una formula di devozione, oppure sta zitto, augurandosi la benevolenza di Dio: non dei favori particolari, spiegano, perché Dio non si fa comprare o corrompere, ma la benevolenza e la misericordia. E anche, simbolicamente, realizza una personale limitata amnistia: simbolico è il volo che prende l’uccello liberato, il quale peraltro è un prigioniero del tutto innocente, dunque l’auspicio riguarda per riflesso il liberatore. Il quale, quando è più ricco o più devoto o più bisognoso di conforto, o anche – succede – più sensibile all’eventuale fotografa di passaggio, può comprare molti storni o l’intera gabbia – un’amnistia generale.

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