Appunti, senza maramaldeggiare, su (mal)educazione sessuale e Trump

Adriano Sofri
Da “Che ciai il marchese?” ai “Cenci mestruati” di Gramsci

Caro Giuliano, cara Selma, voglio ricapitolare per voi alcune tappe della mia diseducazione sessuale. Avevo undici anni quando arrivai a Roma da una città di provincia, erano i primi anni Cinquanta. Fino ad allora, se non ricordo male, non avevo idea che le donne avessero le mestruazioni, qualunque forma lessicale una simile idea potesse prendere: così come l’ho detta, era escluso che venisse enunciata. Invece a Roma tutti i ragazzini sembravano saperla lunghissima sui misteri del sesso. Si dicevano l’un l’altro scherzosamente o ferocemente “A frocio!”. Si davano di gomito indicando una compagna di classe e decretavano: “Cià il marchese!”. Estendevano anche ai maschi quel titolo di nobiltà: “Che ciai il marchese?”.

 

Che cosa volesse dire esattamente l’epiteto ingiurioso “A frocio” non sapevo, e non potevo chiedere, per non sputtanarmi; in compenso, mi misi a dire anch’io “A frocio!” agli altri, con piena convinzione. Era tutta una partita di giro fra froci. Ancora meno sapevo che cosa significasse il marchese, e ancora meno potevo chiederlo. Mostrare di non sapere cose così essenziali riguardanti le femmine avrebbe esposto alla rovina. Bisognava lavorare di intuito e far tesoro delle allusioni. Il marchese era senz’altro un affare femminile, e abbastanza spregevole, dal momento che coincideva con malumore e cattivi modi. Una versione del giramento di palle, per così dire: ma anche il giramento di palle non era immediatamente chiaro, e all’epoca pensavo che fosse ancora presto, e una volta che fossi cresciuto anche le mie palle si sarebbero messe a girare. I miei compagni, che oltretutto erano in genere più grandi di me, e nel caso di prestigiosi ripetenti parecchio più grandi, avevano l’occhio clinico, e sapevano cogliere da dettagli altrimenti inosservati – una caviglia fasciata, in particolare – che una bambina ciaveva il marchese. Quanto ai veri grandi, poteva capitare di sentire che qualche creatura femminile “aveva le sue cose”. Ancora più del marchese, questa formula scavava un baratro fra maschi e femmine: le femmine avevano le loro cose, e le loro cose, a differenza di Coso Nostro, erano comunque disgustose. Bene, ora farò, per esigenze di spazio, un salto nel tempo, e arriverò ai miei 17 o 18 anni, età per allora parecchio avanzata, in cui lessi Antonio Gramsci. Lo lessi molto, e poi decisi di farne l’argomento della mia tesi. Essendo per natura un attivista, mi concentrai sul Gramsci militante dei primi anni, e inevitabilmente ne fui influenzato nelle mie prime prove di propaganda rivoluzionaria, articoletti e soprattutto volantini. Il fatto è che Gramsci, il Gramsci torinese, aveva intitolato dei suoi articoli, e non una sola volta, “Cenci mestruati”.

 

[**Video_box_2**]Così sprezzantemente liquidava certe spregevoli posizioni avversarie. Era imbarazzante: ancora più imbarazzante è che io ora non ricordi se non abbia ceduto, nonostante i miei anni e una (minima, eh?) conoscenza in più dell’anatomia, alla ripetizione di quell’espressione. Ora, che ne scrivo, mi guardo bene dal maramaldeggiare sul giovane Gramsci, al quale invece, giovane e maturo, vivo e morto, serbo un fortissimo affetto. Non maramaldeggio nemmeno su me undicenne e i miei compagni di allora. Era solo per spiegare come eravamo noi maschietti, nel primo Anteguerra e nel secondo Dopoguerra, e chissà quanto tempo ancora. Infatti Donald Trump, noto tamarro e riporto ambulante, ci è risguazzato a pie’ pari, nel sangue versato, mirando addirittura alla Casa Bianca. Io sono vecchio, mi girano le palle, e questo era un mio piccolo e reticente contributo al dibattito.

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