Il processo penale non si raddrizza con la ruspa

Rocco Todero

Una recente sentenza della Corte costituzionale ricorda al Parlamento la necessità di salvaguardare la ragionevole durata del processo ma anche la tutela dei diritti degli imputati

Probabilmente è una metafora che non troveremo mai utilizzata in un comunicato stampa della Corte costituzionale, ma l’immagine della ruspa che s'aggira all’interno dell’ordinamento processuale penale, potrebbe essere una rappresentazione utile, perché elementare, per far comprendere a quanti oggi assumono le vesti del legislatore l’oggetto del contendere.

Stiamo parlando della necessaria abilità richiesta al Parlamento di un Paese civile di sapere coniugare l’esigenza di tutela dei diritti di coloro che sono sottoposti a processo penale, con l’imprenscindibile necessità d’assicurare l’accertamento della verità e una ragionevole durata del processo stesso.

All’interno di questa dinamica particolarmente complessa e contrassegnata da spinte volte a salvaguardare  differenti esigenze, emerge ogni tanto la tendenza ad utilizzare la ruspa, un attrezzo dotato della forza necessaria ad abbattere qualsiasi ostacolo fisico si frapponga sul suo cammino, ma capace, allo stesso tempo, di demolire, una volta messosi in azione, le fondamenta e le strutture portanti di quello stesso edificio che si  vorrebbe ristrutturare.

Con un recente sentenza (n. 132 del 29 maggio 2019) la Corte costituzionale ha ricordato ancora una volta come la ruspa sia lo strumento meno adatto per raggiungere l’agognato traguardo d'una rimodulazione del nostro processo penale, perché una volta messa in moto la macchina distruttrice potrebbe risultare davvero difficile arrestarla giusto in tempo per evitare il collasso dell’intero complesso.

Ai non addetti ai lavori sarà forse ignoto il fatto che nel processo penale vige una regola sulla base della quale tutte le volte che nel corso del dibattimento viene sostituita la persona fisica del giudice, l’imputato ha diritto a richiedere la ripetizione delle prove sino a quel momento assunte, poiché l’eventuale evidenza della sua colpevolezza deve essere “percepita” direttamente da colui che lo giudicherà, senza che possano ritenersi sufficienti (normalmente) le riletture dei verbali delle testimonianze già espletate.

Si tratta d'una regola indispensabile in quanto si ritiene correttamente che la sola rilettura dei verbali, da parte di chi non abbia assistito visivamente alla condotta tenuta dai testi nel corso del dibattimento, non possa considerarsi sufficiente a giudicare della genuinità e della attendibilità di coloro che sono stati interrogati e contro esaminati.

Le disfunzioni dell’amministrazione giudiziaria, però, sono tali e tante nel nostro Paese che i continui trasferimenti dei magistrati da alcune sedi giudiziarie fanno sì che la regola della ripetizione dell’assunzione delle prove produca effetti in danno della ragionevole durata del processo e favorisca la maturazione dei termini di prescrizione a favore dell’imputato.

E’ accaduto così che al Tribunale di Siracusa, dinanzi ad un processo penale che si trascina dal 2007 a causa del ripetuto mutamento della composizione del collegio giudicante e della conseguente rinnovazione delle prove richiesta dagli imputati, nel 2018 i giudici (forse anche stizziti dal prossimo sopraggiungere del termine di prescrizione del reato) hanno domandato alla Corte costituzionale di potere mettere in azione la ruspa.

Il Tribunale siciliano, infatti, ha interrogato la Consulta sulla legittimità costituzionale di un meccanismo processuale che per garantire la tutela dei diritti dell’imputato finisce per frustrare le ragioni dell’intero processo e ha proposto una lettura della norma secondo la quale la ripetizione dell’escussione dei testi dovrebbe ritenersi legittima sintantoché non si consumi il termine di tre anni dall’inizio del dibattimento; maturato il quale, in ossequio alla ragionevole durata del processo, non dovrebbe essere più possibile procedere alla ripetizione delle prove.

La Consulta ha dichiarato inammissibile la questione prospettata dal Tribunale ed ha ricordato, da una lato, come il principio dell’assunzione diretta della prova da parte di chi dovrà emettere la sentenza sia “tendenzialmente” inviolabile, dall’altro, che il compito di non rendere vano il dispendio d’energie profuso nella celebrazione del processo penale spetta al legislatore, il quale però non potrà utilizzare la ruspa ma il bisturi chirurgico di precisione.

A fronte di processi penali che, con o senza cambiamento della persona fisica del giudice, durano un lasso di tempo irragionevolmente lungo, l’utilità della percezione diretta della prova, ha ricordato la Corte, rischia d'apparire un mero simulacro dietro il quale si nasconde, invece, il ricorso continuo alla lettura delle trascrizioni di verbali redatti molti anni addietro.

Considerato che l’unico sistema processuale accettabile è quello che coniuga la tutela delle garanzie dell’imputato con l’efficienza e la speditezza dei procedimenti, ha aggiunto la Consulta, sarebbe il caso che il Parlamento prendesse atto della necessità d’introdurre l’uso ordinario d’alcuni strumenti, come la videoregistrazione, che salvaguarderebbero contestualmente tutte le predette esigenze.

Un appello anche a questo Parlamento d’utilizzare il bisturi e non la ruspa, come ha fatto sinora.

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