Matteo Salvini (foto LaPresse)

La sovranità appartiene al popolo anche in materia di giustizia

Rocco Todero

Il Ministro Salvini si lamenta della giustizia, ma oggi il legislatore è lui. Cosa aspetta?

La condanna dell’oramai ex vice Ministro alle infrastrutture Edoardo Rixi ha riacceso l’eterno dibattito italiano sul tema della giustizia e dei limiti all’interno dei quali dovrebbe agire l’Ordine giudiziario.

Da più parti si è ripreso il canovaccio della narrazione della magistratura militante che dimostrerebbe d’essere sempre pronta a colpire il nemico politico di turno, ravvisabile oggi, secondo questa rappresentazione, negli esponenti politici della Lega al Governo.

All’ex direttore del TG1 e già Senatore della Repubblica, Augusto Minzolini, che su twitter si è detto convinto che nel caso Rixi  v’è  dimostrazione di come la giustizia in Italia sia uno strumento utilizzato sempre più spesso per colpire l’avversario, ha fatto eco l’ex deputato Guido Crosetto che ha espresso il dubbio che il codice penale sia stato utilizzato per tenere ancora una volta sotto scacco la politica.

Il Ministro Salvini, invece, al di là della mossa tattica di far dimettere Rixi per non offrire ai cinque stelle la possibilità d’utilizzare l’arma retorica dell’onestà, era partito bene, sottolineando, nel corso d’una conferenza stampa indetta subito dopo la lettura del verdetto del Tribunale di Genova, l’anomalia della sproporzione della sanzione applicata all’ex sottosegretario, sopratutto se paragonata a quella che spesso la cronaca giudiziaria rivela essere stata comminata in danno di autori di reati che suscitano un maggior allarme sociale.

Le affermazioni del leader della Lega hanno fatto il paio con la presa di posizione che lo stesso Ministro aveva assunto qualche giorno addietro sul reato d’abuso d’ufficio e sulla necessità d’una sua riformulazione a causa dell’eccessiva indeterminatezza della fattispecie in esso rappresentata.

I più ingenui hanno potuto coltivare, così, la momentanea illusione che Matteo Salvini avesse finalmente maturato la convinzione d’aggredire alcune delle principali criticità che caratterizzano il nostro ordinamento penale e che, nell’ordine, possono riassumersi nell’eccessiva genericità di alcuni reati, nella sproporzionata gravità delle sanzioni attualmente previste per i reati contro la pubblica amministrazione (accompagnate da pene accessione pressoché automatiche) nell’ampio margine di discrezionalità che il codice penale assegna al Giudice (in ossequio al canone della individualizzazione della pena) nel determinare la sanzione all’interno di uno spazio troppo ampio compreso fra il minimo ed il massimo.  

Nel giro di poche ore, però, il leader della Lega ha fugato ogni dubbio sulla sua possibile resipiscenza contromanettara ed ha ribadito, nel corso della trasmissione televisiva “dirittoerovescio”  che il problema della giustizia italiana si anniderebbe nella partigianeria politica di certa magistratura militante.

Un veloce ripasso dei fondamenti del nostro ordinamento giuridico consentirebbe, tuttavia, a Matteo Salvini (e a molti altri) di comprendere come le condizioni generali nelle quali versa la giustizia italiana siano da imputare pressoché esclusivamente ad un ceto politico totalmente in balia delle correnti giustizialiste che attraversano, orami senza sosta da Tangentopoli in poi, l’opinione pubblica nazionale.

La Corte costituzionale, infatti, ha più volte ribadito come spetti al Parlamento italiano non solo  individuare quali condotte sottoporre a sanzione penale ma, sopratutto, apprezzarne la gravità al fine di determinare l’entità della pena da comminare, ammettendo che la giurisprudenza possa solo limitarsi a scegliere la pena più adatta alla personalità del reo all’interno dello spazio che il legislatore ha segnato fra il minimo ed il massimo.

Cosicché risulta evidente come l’oggettiva sproporzionata gravità delle sanzioni previste per i reati  contro la pubblica amministrazione, l’automatismo delle sanzioni accessorie come l’interdizione dai pubblici uffici, l’eccessiva discrezionalità assegnata ai Tribunali nella determinazione concreta della sanzione, rappresentino lo spazio d’azione all’interno del quale il legislatore (e nessun altro) ha voluto che la magistratura operasse per perseguire questi reati.

Se a quanto sin qui detto si aggiunge che la retroattività dell’applicazione di alcune misure sanzionatorie (penali in senso stretto o di altra natura), la discrezionalità dell’azione penale, la mancata separazione delle carriere, l’omessa indicazione di limiti ancora più stringenti all’utilizzo delle misure cautelari e l’inasprimento di alcuni istituti processuali e dell’ordinamento penitenziario, non sono altro che scelte esplicite messe in campo dalle maggioranze parlamentari che si sono succedute dagli anni 90 in poi, appare facilmente comprensibile come le critiche rivolte alla magistratura dovrebbero, in realtà, essere indirizzate al ceto politico che ha imperversato negli ultimi tre decenni.

La Costituzione repubblicana consente, infatti, di potere ridurre gli eccessivi margini di discrezionalità di cui gode oggi la magistratura senza attentare né all’indipendenza dell’Ordine giudiziario, né all’effettività della funzione repressiva che lo Stato deve necessariamente garantire contro le condotte che aggrediscono i beni giuridici fondamentali degli individui.

Coloro che accusano la magistratura di rappresentare troppo spesso un potere partigiano che interferirebbe nell’agone politico dovrebbero rammentare come la fonte di legittimazione di tale potere sia stata la politica che, sebbene vittima del suo stesso operato, sarebbe ancora in condizione adesso di cambiare rotta. Sopratutto se quanti si lamentano dei verdetti dei Tribunali  sono ancora oggi i legislatori della nazione.