La trattativa Stato-mafia c'è stata, forse. E con questo?

Rocco Todero

La storiografia più accreditata è da tempo concorde nel sostenere che durante la seconda guerra mondiale il Governo degli Stati Uniti chiese aiuto alla mafia, sopratutto a quella di New York, per tirarsi fuori dalla drammatica situazione che imperversava nello specchio delle acque territoriali americane dove i sottomarini tedeschi, con la probabile complicità di agenti segreti del loro servizio d’intelligence acquartierati dentro il porto della Grande Mela, imperversavano senza trovare ostacolo alcuno nell’affondare decine di navi destinate a trasportare aiuti per sostenere lo sforzo bellico d’Inghilterra e Francia contro Adolf Hitler.

Le autorità militari, a torto o a ragione (questo ancora non è chiaro), erano persuase del fatto che solo coloro che detenevano l’effettivo controllo del porto di New York avrebbero potuto fornire un fondamentale contributo per non rendere vani gli sforzi statunitensi contro l’aggressore tedesco. La trattativa coinvolse gente del calibro di Lucky Luciano, Meyer Lansky, Benjamin Siegel, Joe Adonis e Frank Costello, la cupola della più potente mafia americana allora in attività.

I “mangia spaghetti” furono, inoltre, il canale d’informazione principale per l’organizzazione dell’operazione Husky, nome in codice con il quale fu identificato lo sbarco delle truppe alleate in Sicilia nel luglio del 1943. Lucky Luciano e suoi “compari” riuscirono a fare in modo che i soldati a stelle e strisce trovassero la minore resistenza possibile nell’Isola e potessero beneficiare, già nel momento stesso in cui avessero messo piede sulle spiagge, di una rete di “picciotti” fidati capaci di descrivere a menadito, strade, postazioni nemiche, ed ogni sorta di anfratto.

Per i servizi resi durante il conflitto bellico Lucky Luciano (assassino, sfruttatore di prostitute, commerciante di droga, estorsore e corruttore) fu liberato anticipatamente ed estradato in Italia grazie ad un provvedimento firmato da Thomas Edmund Dewey, il procuratore distrettuale della contea di New York che lo aveva fatto condannare ad un pena “non inferiore a 30 anni” qualche anno prima e che era poi divenuto Governatore di quello stesso Stato.

Questo squarcio di storia del novecento racconta in tutta la sua drammaticità della fortissima tensione alla quale può essere sottoposto lo Stato di diritto nei momenti più difficili della vita delle liberal democrazie, soprattutto quando esse sono sotto attacco, allorché, cioè, praticare l’eccezione alla regola di diritto potrebbe rappresentare l’unica soluzione per salvare l’intero sistema della convivenza civile. Si tratta di una deviazione dall’ordinario, da quella che dovrebbe essere l’inviolabile regola del “governo delle leggi”, che conduce nel sentiero ambiguo, fosco, e discrezionale del “governo degli uomini”.

Non vi è da parte dei rappresentanti del governo complicità col sodalizio criminale, né volontà di rafforzarne il potere e la struttura organizzativa, ma soltanto il desiderio di tentare di evitare mali maggiori in un contesto di grave debolezza istituzionale cui non è possibile porre rimedio repentinamente.

Non si assiste nemmeno ad una sospensione della lotta fra il bene e il male, quanto più semplicemente all’individuazione di un pericolo di maggior rilievo da sventare in una situazione di grave svantaggio nei confronti del nemico che potrebbe preludere a guai ben maggiori.

Dopo la liberazione di Lucky Luciano le autorità americane ripresero senza indugio la loro battaglia contro la malavita organizzata italoamericana e diedero filo da torcere per anni ad infinite schiere di boss e famiglie mafiose.

A Palermo, invece, un Tribunale della Repubblica italiana ci ha fatto sapere che per gli ufficiali dei Carabinieri che avrebbero tentato (ammesso che così sia stato) di fermare la mattanza di politici, giudici, poliziotti ed inermi cittadini, fatti esplodere in aria e ridotti a brandelli sulle autostrade siciliane, in pieno centro cittadino a Palermo o in ogni altra parte d’Italia, può esserci solo il carcere.

Nonostante la gravissima debolezza del corpo e dell’anima dello Stato in quei terribili mesi, resa evidente dal caos istituzionale e dalla incapacità di organizzare una risposta investigativa immediatamente idonea a mettere a riparo la vita di rappresentanti delle istituzioni e di ignari cittadini, malgrado il concreto pericolo che la Repubblica crollasse definitivamente sotto i colpi serrati della più spietata organizzazione criminale italiana mai vista, sebbene la lotta alla mafia quegli autori della trattativa non avrebbero poi mai smesso di continuare senza sosta alcuna, il tentativo di far riprendere fiato alle istituzioni democratiche deve essere considerato, secondo i pubblici ministeri ed i giudici della Corte, alla stregua di un crimine ingiustificabile.

A nulla vale argomentare che il nemico ti aveva messo oramai il coltello alla gola e che avevi ritenuto necessaria una tregua (e non una resa) per riprendere le forze, non soccombere definitivamente e contrattaccare. A nulla vale sottolineare che anche la pubblica accusa in questo processo sulla presunta trattativa è consapevole che non ci fu mai, nemmeno per un momento, la volontà da parte dei rappresentati dello Stato di concorrere con la mafia nel disegno criminale portato avanti dai corleonesi per più di trent’anni. A nulla serve ricordare che la trattativa (ammesso ci sia stata) avrebbe permesso comunque di assestare un colpo micidiale al Capo dei capi e, da lì a qualche anno, all’intera organizzazione malavitosa.

Il fanatismo, infatti, quello massimamente manicheo, quello assolutamente intransigente, quello disumano, ti spiega, con fare censorio e teatrale allo stesso tempo, che non avresti dovuto nemmeno parlare con il nemico (ammesso che tu lo abbia fatto), piuttosto avresti dovuto preferire farti ammazzare dopo avere assistito al disfacimento generale di quello che sarebbe rimasto dello Stato di diritto, soprammobile d’arredo, a quel punto, ad uso e consumo della mafia che avremmo voluto sconfiggere.

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