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Quello che non vi hanno ancora detto sulla decisione del Consiglio di Stato riguardo al Politecnico di Milano

Rocco Todero

Docenti che s’intestano la battaglia per la libertà d’infischiarsene della lingua inglese spacciandola per la difesa del principio d’uguaglianza degli studenti e giurisprudenza costituzionale che scivola sulla trappola del nazionalismo linguistico

Nei numerosi commenti alla sentenza del Consiglio di Stato che ha confermato qualche giorno addietro l’annullamento della deliberazione del Senato accademico del Politecnico di Milano di tenere corsi di laurea esclusivamente in lingua inglese, sono rimaste incredibilmente nell’ombra almeno due questioni che meritano, invece, di essere chiarite in tutta la loro dimensione surreale.

 

Dalla lettura congiunta delle sentenze del TAR Milano (primo grado) e del Consiglio di Stato emerge, innanzitutto, come l’iniziativa di contrastare la decisione del Senato Accademico abbia preso le mosse da docenti e ricercatori, da quei dipendenti dell’Università cioè che dovrebbero preoccuparsi esclusivamente di fornire un servizio di un certo livello agli studenti che rappresentano la categoria degli utenti per i quali l’intero apparato amministrativo è predisposto.

 

La battaglia per la difesa della lingua nazionale è stata formalmente intrapresa in nome della tutela della libertà d’insegnamento dei docenti e del principio d’uguaglianza degli studenti, ma si è tradotta, in realtà, nella rivendicazione della libertà di non conoscere l’inglese, d’insegnare solo nella lingua italiana (perché se si trattasse davvero di libertà d'insegnamento un docente polacco, ad esempio, dovrebbe potere tenere corsi nella sua lingua madre, mentre così non è) e nella riaffermazione delle dimensioni meno che provinciali di un’Università che dovrebbe essere aperta all’intera comunità internazionale e che con quest'ultima dovrebbe confrontarsi.

 

Ancora una volta è prevalsa, per essere chiari, la pretesa che le organizzazioni pubbliche italiane siano più al servizio della pigrizia delle burocrazie che da esse traggono benefici (e che fanno fatica a quanto pare a comprendere che il mondo rappresenta una dimensione leggermente più ampia di un Paese che conta appena 60 milioni di abitanti) che pronte a soddisfare le accresciute esigenze degli utenti e della comunità dei contribuenti che le finanziano.

 

Ad arricchire un quadro di per sé già poco commendevole ha contribuito la Corte Costituzionale italiana che con una sentenza del 2017 ha di fatto costretto poi il massimo organo della giustizia amministrativa a sconfessare oggi la volontà del Senato Accademico del Politecnico di Milano.

 

Nei commenti alla sentenza del Consiglio di Stato l’esigenza d’inseguire la cronaca del momento ha forse contribuito a sottacere il contenuto della decisione della Consulta (vecchia di un anno) che invece rappresenta il cuore pulsante dell’intera vicenda e che lascia francamente perplessi per la natura delle argomentazioni utilizzate a sostegno della tesi secondo la quale le intenzioni degli organi del Politecnico di Milano di impartire lezioni esclusivamente in lingua inglese non sarebbero in linea con la Costituzione repubblicana.

 

La Corte costituzionale ha approntato una vera e propria difesa della lingua italiana che richiama toni e registri che non è esagerato definire prossimi al nazionalismo linguistico (e al nazionalismo tout court) se solo si pone mente alle seguenti affermazioni contenute nella sua decisione:

 

1) La giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di precisare – in relazione al «principio fondamentale» della tutela delle minoranze linguistiche di cui all’art. 6 Cost. – come la lingua sia «elemento fondamentale di identità culturale e […] mezzo primario di trasmissione dei relativi valori», «elemento di identità individuale e collettiva di importanza basilare»

2) La lingua italiana è dunque, nella sua ufficialità, e quindi primazia, vettore della cultura e della tradizione immanenti nella comunità nazionale, tutelate anche dall’art. 9 Cost. La progressiva integrazione sovranazionale degli ordinamenti e l’erosione dei confini nazionali determinati dalla globalizzazione possono insidiare senz’altro, sotto molteplici profili, tale funzione della lingua italiana: il plurilinguismo della società contemporanea, l’uso d’una specifica lingua in determinati ambiti del sapere umano, la diffusione a livello globale d’una o più lingue sono tutti fenomeni che, ormai penetrati nella vita dell’ordinamento costituzionale, affiancano la lingua nazionale nei più diversi campi. Tali fenomeni, tuttavia, non debbono costringere quest’ultima in una posizione di marginalità: al contrario, e anzi proprio in virtù della loro emersione, il primato della lingua italiana non solo è costituzionalmente indefettibile, bensì – lungi dall’essere una formale difesa di un retaggio del passato, inidonea a cogliere i mutamenti della modernità – diventa ancor più decisivo per la perdurante trasmissione del patrimonio storico e dell’identità della Repubblica, oltre che garanzia di salvaguardia e di valorizzazione dell’italiano come bene culturale in sé.

  

Davanti a queste affermazioni è appena il caso di rammentare come, da un lato, l’esasperata tutela della lingua nazionale dalle contaminazioni straniere sia stata storicamente il tratto caratteristico del nazionalismo nelle sue forme più radicali (basti pensare al fascismo), mentre, dall’altro, il primato della lingua italiana perseguito per mezzo dell’ordinamento giuridico vada in direzione esattamente contraria alla naturale tendenza della cooperazione sociale di milioni di individui che utilizzano ormai anche nel nostro Paese in numerosissimi ambiti (sopratutto in quelli della ricerca scientifica) la seconda lingua più diffusa al mondo.

 

Assai discutibile appare, infine, la pretesa di potere individuare un insieme di valori e di identità culturali tipiche della Repubblica italiana che potrebbero essere preservate esclusivamente per mezzo della diffusione della lingua ufficiale e ciò proprio nell’epoca della globalizzazione di una cultura dei diritti che non conosce più la specificità dei confini nazionali.

 

Insomma, cos’altro ha spinto la Corte costituzionale in questa direzione se non un intento pericolosamente nazionalista?