Il professore, teorico dei beni comuni e del reddito di cittadinanza, argomentava la tutela dei diritti sociali come se il vincolo economico non esistesse

Stefano Rodotà e la variabile indipendente dei diritti sociali

Rocco Todero

Sarebbe pretenzioso pensare di potere descrivere un profilo intellettuale completo di uno studioso, prolifico ed intensamente impegnato nel mondo civile e delle istituzioni, del livello del prof. Stefano Rodotà. Alcuni tratti delle sue riflessioni, tuttavia, meritano di essere ricordati perché hanno assunto nel tempo i contorni di prospettive giuridiche e politiche idealiste, quasi utopiche, capaci, ciononostante, di produrre vasta eco e di raccogliere largo consenso fra gli studiosi e nell’opinione pubblica.

Il professore Rodotà descriveva i diritti sociali (sanità, scuola, assistenza sociale, previdenza, diritto all’abitazione) alla stessa stregua di variabili indipendenti dalle risorse economiche disponibili nel mondo reale per mezzo delle quali finanziarli, renderli concreti e tutelarli in via giurisdizionale. Ne parlava come si trattasse di pretese individuali e collettive universali che potevano essere reclamate da tutti (non solo dai cittadini dunque) nei confronti di chiunque e per di più in ogni tempo ed in qualsiasi luogo, a prescindere dalla dimensione geografica della statualità o dal contesto storico di riferimento.
Il professore riteneva, ad esempio, che ”…la crisi economica, e la scarsità delle risorse disponibili da essa determinata, ripropongono la dipendenza totale della solidarietà da un fattore esterno, dalle risorse economiche disponibili, imponendo così una visione dei diritti sociali unicamente come diritti sottoposti alla condizione obbligante dell’esistenza dei mezzi finanziari necessari per renderli effettivamente operanti. Ma, facendo diventare questo il criterio per il riconoscimento dei diritti sociali, viene messo in discussione il carattere proprio dello Stato costituzionale di diritto come luogo di complessivo riconoscimento di diritti fondamentali tra loro indivisibili.”
La soddisfazione dei diritti sociali era pensata in una dimensione universale, come detto, e non poteva essere ricondotta alla carità o all’assistenza, ma doveva trovare fondamento nella solidarietà, intesa quest'ultima come dovere inderogabile, dai contorni per nulla definiti in termini quantitativi, cui ciascun individuo dovrebbe farsi carico nei confronti non solo dei propri concittadini ma dell’umanità tutta. Un vincolo giuridico cui sottostare anche qualora non vi si aderisse spontaneamente ed in maniera convinta.

Alle fondamenta di questo pensiero il prof. Rodotà sembrava porre un costituzionalismo che si potrebbe definire “comunitario”, un patto di convivenza sociale non limitato alla definizione di regole comuni che si limitino a rendere compatibile il perseguimento di milioni di finalità diverse, tante quante sono le individualità del patto costituzionale, ma un contratto sociale che obbligherebbe tutti a percorrere forzatamente un cammino comune verso mete condivise e che non ammetterebbe deviazioni individuali fuori dal perimetro della solidarietà così come sin qui descritta.

E’ rimasta in ombra, tuttavia, all’interno di questa ricostruzione, la libertà individuale e l’inammissibile compressione che essa rischia di subire in assenza di una preventiva delimitazione anche del dovere di solidarietà sociale ed economica.
Sono stati sottaciuti i limiti del dovere di solidarietà, in assenza dei quali la libertà in balia della solidarietà stessa rischia di trasformarsi in schiavitù, atteso che nella prospettiva del prof. Rodotà le risorse economiche frutto dell’esercizio della libertà individuale devono rendersi disponibili per la soddisfazione di una solidarietà universale (reddito di cittadinanza e accoglienza migratoria senza alcun limite). Ciascun essere umano nascerebbe, in sostanza, con il fardello giuridico (non solo morale ed etico) di farsi carico di tutti gli esseri viventi, in ogni circostanza di tempo e di luogo, sospinto da un afflato quasi mistico che offusca ogni oltre ragionevole limite, però, le esigenze della vita individuale. 

Il prof. Rodotà sembrava non attribuire alcun rilievo al fatto che ogni pretesa individuale relativa ai diritti sociali è destinata a "consumare" risorse, lavoro ed energie prodotte da altri esseri umani e che questo scambio può avvenire o spontaneamente o coattivamente trasformando la solidarietà in inderogabile dovere giuridico la cui violazione è punita con la violenta sanzione dello Stato. 

Non sembra, poi, che il prof. Rodotà sia riuscito a dimostrare adeguatamente come sciogliere le comunità sociali dal vincolo di bilancio al fine di garantire costanti livelli di soddisfacimento dei diritti sociali anche in assenza della necessaria ricchezza collettiva o perché non si debba dare sufficiente rilievo alla solidarietà fra generazioni che impedirebbe di alimentare i diritti sociali per mezzo del debito pubblico, ad esempio. 

Per usare una provocazione non irriguardosa si potrebbe dire che il prof. Rodotà non ci ha mai spiegato poi la fallacia dell’affermazione secondo la quale “la sovranità finisce quando termina la solvibilità” (il caso della Grecia) ed ha forse sottovalutato la dimensione autenticamente liberale dei meccanismi di mercato, oltre al fatto che la storia sembra avere definitivamente confermato che i diritti sociali possono essere alimentati esclusivamente da capitalismo, mercato e globalizzazione, fenomeni verso i quali, invece, il professore sembra essere stato ingiustificatamente troppo severo.