Nuovo cinema Mancuso, restando a casa

Mariarosa Mancuso

Il divano non è tanto scomodo, e abbiamo tanti film da vedere. Eccone una selezione. E quando finirà la quarantena, un brindisi a chi ha inventato lo streaming

Gli sceneggiatori dovrebbero raccontare con buona scrittura le cose del mondo – amori, amicizie, litigi, vendette, rapine in banca, guerre, disastri e tutto il resto. Ma dovrebbero farlo dopo che queste cose son successe. Perlomeno, fuori dalla categoria “film di fantascienza”, che peraltro raramente ci azzeccano: avremmo dovuto nutrirci di pillole e diventare intelligentissimi (teste grandi e corpicini, nel disegno) e invece fotografiamo il cibo prima di mangiarlo, e crediamo a tutte le bufale.

Scott Z. Burns – lo sceneggiatore di “Contagion” diretto da Steven Soderbergh – ha azzeccato praticamente tutto, nove anni fa. Variety lo ha interrogato ieri per capire dove si era procurato le informazioni. Precisissime: il dottor Sanjay Gupta che insegna le misure precauzionali sulla Cnn lo faceva già nel film, scritturato nella parte di se stesso. E sono quelle che sappiamo, a cominciare da “lavarsi le mani, lavarsi le mani, lavarsi le mani”.

 

E poi “stare a casa, stare a casa, stare a casa”. L’equivalente – fatte le proporzioni – di quel che succede nel film “World War Z” di Marc Foster. Siccome lì la minaccia sono gli zombie, e il contagio avviene attraverso i morsi, sul collo o altrove, come fa Israele a restare immune dall’epidemia? Facile, obbliga l’intera popolazione a cavarsi i denti. Quindi stiamo a casa: il divano non è tanto scomodo, e abbiamo tanti film da vedere (quando finirà, un brindisi a chi ha inventato lo streaming).

 

Mr Burns voleva scrivere un film catastrofico senza mostri né alieni, e aveva sentito i suoi genitori preoccupati per l’aviaria (Soderbergh disse subito: “Ci sto”). Servirono un paio d’anni di ricerche. Interrogò un medico che aveva contribuito negli anni sessanta alla definitiva scomparsa del vaiolo. Un virologo della Columbia University, tale Ian Lipkin, accettò di far da consulente, a patto che poi sceneggiatore e regista non lavorassero di fantasia (ogni volta che diciamo: “proprio quel che sta succedendo adesso”, è perché Burns aveva studiato bene la lezione del virus che colpisce all’ora dell’aperitivo, e addio per sempre noccioline nella ciotola).

 

In “Contagion” il presidente degli Stati Uniti si ritira per non ammalarsi (qualcuno dovrà pure guidarlo, il paese, intubati è difficile). Nella realtà – avranno mica ragione, quelli convinti che supera sempre la fantasia? – Donald Trump passa dal negare l’evidenza all’emergenza nazionale. Anche se tra i contagiati c’è Tom Hanks, l’eroe americano. Altro cortocircuito tra le prime pagine e Hollywood, che sta cominciando a calcolare quanto costerà bloccare le produzioni e rimandare le uscite. Per finire: sembra che “forsizia” – la cura ricavata dalle piante che il blogger Jude Law nel film spaccia come miracolosa – sia stata adottata dai cinesi con scarsa fiducia nel governo come parola in codice per dire “menzogna”.

AMERICAN HUSTLE

di David O. Russell, con Christian Bale, Amy Adams, Bradley Cooper (Netflix)

“Casting against type”: è quando si distribuiscono i ruoli sfidando gli stereotipi. In “Come d’incanto” eri una principessa bionda catapultata a New York dalla regina cattiva? Farai un’ex spogliarellista che si spaccia per lady britannica, a dispetto di un guardaroba che contiene solo abiti scollati fino all’ombelico. Sei famoso perché dimagrisci a comando? Ti farò mettere su pancia - ma pancia per davvero, da birra o da fumetto – per recitare un truffatore che incanta con la parlantina - nonostante il riporto tenuto insieme con tanta lacca che il buco nell’ozono ancora ne risente. Hai fatto lo sminatore in un film sulla guerra in Iraq? Per te c’è un bel ciuffettone alla Elvis, tremende giacche da sindaco italo-americano che vuole riaprire i casinò di Atlantic City (graditi gli investimenti mafiosi). Sei l’idolo delle ragazzine per aver trionfato in un survival movie come “Hunger Games”? Sarai una casalinga disperata, cotonata, perniciosa nelle sue entrate fuori tempo. Amy Adams, Christian Bale, Jeremy Renner, Jennifer Lawrence sono fantastici. Assieme a Bradley Cooper, agente dell’Fbi convinto che per smascherare i politici corrotti servano i professionisti della truffa. “Confidence man” che carpiscono la fiducia della gente facendosi anticipare cinquemila dollari in cambio di nulla. “Ogni giorno nasce un pollo e due furbi per fregarlo”, diceva Joe Mantegna in “La casa dei giochi” di David Mamet (qualcuno lo metta in streaming per evitare le tentazioni piratesche, grazie,) David O. Russel aggiunge che certa gente falsifica quadri d’autore, e altra gente aggiusta la propria vita raccontandola. Fu una vera operazione dell’Fbi, i dettagli sono in “Il re della truffa” di Robert Greene (Sperling & Kupfer). Sceneggiata con astuzia, diretta da un regista scatenato: puro divertimento.

HER - LEI

di Spike Jonze, con Joaquin Phoenix, Amy Adams, Scarlett Johansson, Rooney Mara (Netflix)

 

Theodore Twombly fa il segretario galante. Detta a un computer lettere per una varia clientela, fornendo parole d’amore, ringraziamento e amicizia a chi non trova le proprie. Le missive compaiono sullo schermo come se fossero scritte a mano, con la grafia più adatta al contenuto: infantile, incerta, angolosa, da biro su carta rigata o da stilografica su fogli eleganti, cuoricini al posto dei puntini sulle i. La moglie lo ha lasciato e vorrebbe fargli firmare al più presto le carte del divorzio, passa le serate litigando con il pupazzetto di un videogioco. Siamo in un futuro abbastanza lontano perché Los Angeles abbia i grattacieli di Shanghai e gli uomini portino i calzoni a vita alta come Cary Grant. E abbastanza vicino per farci stare l’evoluzione di Siri. Ha la voce di Scarlett Johansson e si configura (da sola) come la fidanzata ideale. Sa tutto di Theodore, gli ha perfino buttato via le mail inutili dopo una sbirciatina fulminea. Si accende a comando, di giorno o di notte, sussurra e ride sempre a proposito, dà qualche suggerimento per le lettere di lavoro ed è prodiga di parole gentili. Non innamorarsi è impossibile, e il nostro non chiede di meglio. Trovando molti precedenti nel cinema e nella letteratura: un po’ per via di Narciso, un po’ per via delle storie dove sono le statue o le bambole meccaniche a suscitare amori virtuali, un po’ per via degli “scrivimi fermo posta” dove due che si odiano nella vita si seducono via lettera. La bravura di Spike Jonze sta nell’aggiornare gli amori-proiezione al gusto contemporaneo.

MOLLY’S GAME

di Aaron Sorkin con Jessica Chastain, Idris Elba, Kevin Costner (Netflix)

 

Donne senza lagna. Succede, in un film scritto (e il primo diretto, senza errori e lungaggini) da Aaron Sorkin. Credenziali: la serie “West Wing - Tutti gli uomini del presidente” e il film “The Social Network” (anche questo su Netflix). “Molly’s Game” è una gran bella storia raccontata benissimo, con irresistibili raffiche di parole dentro e fuori campo. Manovrate da un maestro, non per pigra scorciatoia o incapacità a tratteggiare i personaggi. Jessica Chastain è una fantastica e determinata Molly Bloom – nome vero, anche se tutti pensano l’abbia rubato all’“Ulisse” di James Joyce (con questo nome firma il suo memoir, che nella vicenda ha un ruolo non secondario, l’editore è Rizzoli). Ha dovuto abbandonare le gare di sci per un brutto incidente, si ritrova a Los Angeles. Il lavoro non sarebbe granché, ma come fringe benefit – da brava ragazza sveglia – impara a organizzare partite di poker clandestine, e presto si mette in proprio. Giocavano al suo tavolo registi e attori famosi – da Leonardo DiCaprio a Ben Affleck a Matt Damon – e i polli che amavano farsi spennare dalle celebrità. Gente che poteva perdere cento milioni in una sera, e pagare il suo debito il giorno dopo. Trasferita sulla East Coast – stesso mestiere stesso giro d’affari – incappa nella mafia russa. E nell’Fbi. Perfetto se al cinema vi era piaciuto “Hustler” di Lorene Scafaria e Jennifer Lopez: la vendetta delle spogliarelliste rimaste senza clienti dopo la crisi del 2008.

TWO LOVERS

di James Gray, con Joaquin Phoenix, Gwyneth Paltrow, Vinessa Shaw (Amazon)

 

Serve poco per fare un bel film. James Gray si prende una pausa dai prediletti drammi criminali e scespiriani ambientati a Brighton Beach (“Little Odessa”, “The Yards”, “I padroni della notte”) per raccontare un triangolo amoroso: un trentenne depresso, la fidanzata in casa, la bionda che abita nell’appartamento accanto. “Poco” significa che a un regista bravo, per mostrare lo spavento, non serve neppure la manciata di polvere evocata da T. S. Eliot nella “Terra desolata”. Bastano un paio di grucce con le camicie appena stirate, avvolte nella plastica da tintoria, che Joaquin Phoenix si trascina sul molo, assieme ai suoi cattivi pensieri. Dopo che la precedente ragazza lo ha mollato, è tornato a vivere con i suoi: una famiglia ebraica da manuale, con Isabella Rossellini nella parte della yiddische mame. Lo hanno sistemato nella cameretta dove dormiva da ragazzo, con i poster dei film visti allora, come se avesse già abbastanza motivi per mandar giù qualche psicofarmaco. Vogliono sposarlo con Sandra, anche lei figlia di lavandai, nel tentativo di costruire un piccolo impero della camicia inamidata. Purtroppo per la ragazza, si mette di mezzo Gwyneth Paltrow: troppo bella e troppo bionda per lui, abbastanza misteriosa e molto stronza già a vederla. Naturalmente il giovanotto innamorato non se ne accorge: spia dalla finestra, accorre al primo sms in orari strani, raccoglie confessioni, offre una spalla per piangere. “Poco” significa che “Two Lovers” è tanto realista da lasciare senza fiato. E tanto ben scritto che non abbiamo nessuno da odiare.

IL SINDACO DEL RIONE SANITÀ

di Mario Martone, con Francesco Di Leva, Massimiliano Gallo, Adriano Pantaleo (Rai Play)

 

Il testo teatrale di Eduardo De Filippo è più di una garanzia (non c’è dettaglio che non serva, non c’è frase che suoni falsa, o utile soltanto per informare lo spettatore). Mario Martone aveva già messo in scena il testo nel 2017: siccome certe situazioni sono eterne funziona benissimo anche con un Antonio Barracano più giovane e palestrato, tra Napoli e le pendici del Vesuvio. Ha per soprannome “il Sindaco”, perché risolve problemi, dirime litigi, aggiusta situazioni. A cominciare da due idioti che si sono sparati addosso pur non essendo nemici. Francesco Di Leva è bravissimo come il resto del cast, un collettivo di attori indipendenti che lavora sul territorio a San Giovanni a Teduccio. Anche noi sospettiamo dei collettivi, ma fidatevi (aggiungiamo che non siamo mai stati fan di Martone). Eduardo non ha messo una parola di troppo. Loro non si lasciano scappare un gesto sbagliato.

 

PANAMA PAPERS

di Steven Soderbergh con Meryl Streep, Gary Oldman, Antonio Banderas (Netflix)

 

Zitti e attenti. E’ il denaro che vi parla. Guardando in macchina, con le facce sornione di Gary Oldman e Antonio Banderas non più malinconico come in “Dolor y Gloria”). Ora indossano completi di lino candido con panama (inteso come cappello). Ora si pavoneggiano in giacca di broccato. Sempre in coppia, come il Gatto e la Volpe che convincono Pinocchio a seminare gli zecchini d’oro nel campo dei miracoli). Su una spiaggia tropicale o davanti al bancone di un bar, ma sempre bevendo champagne.. E’ il denaro che parla direttamente allo spettatore, svelando segreti che segreti davvero non sono, ma continuano a fingersi tali, per la gioia dei pochi che comandano il gioco e la sventura degli ignari. Società di comodo, corruzione, evasione fiscale, e le meraviglie dell’off shore, per un totale di oltre duecentomila sigle truffaldine. Un riassunto da serva - meglio, da casalinga e fresca vedova Meryl Streep, in camicetta a fiorellini, scarpe comode, cappello sui ricciolini tinti in casa – di quel che stava scritto sui Panama Papers (e non avremmo mai pensato di capire). Invece si afferra tutto benissimo, e ci si diverte parecchio. Tranne i veri artisti del raggiro: gli avvocati Jurgen Mossack e Ramon Fonseca hanno querelato.

ROCKETMAN

di Dexter Fletcher, con Taron Egerton, Jamie Bell, Richard Madden, Bryce Dallas Howard (Amazon)

  

Elton John irrompe alla riunione degli Alcolisti Anonimi vestito da diavolo in paillettes, avanzando sulle zeppe, con occhiali che un tempo si chiamavano “da diva”. Torna all’infanzia, ai genitori che non l’hanno mai amato (tra le lamentele, anche il nome Reginald), all’Inghilterra degli anni 40, al pianoforte suonato a orecchio. Ma la strada di “Rocketman” è tracciata, verso il kitsch anche narrativo, che trova la sua apoteosi nella canzone del titolo: forsennato delirio in formato videoclip. Quanto al fatto che tra i produttori figuri Elton John, e al sospetto di narcisismo, cosa vi aspettavate da uno che accoppia giubbetti dorati a scarpe da Mercurio con le alette? Che esibisce le ginocchia nude e si fa fotografare su un divano zebrato? Sfilano, secondo il più classico dei copioni punteggiato da intermezzi in musical: l’infanzia difficile e la salvezza che sta nel talento e in un bravo paroliere come Bernie Taupin (l’attore è Jaime Bell: lo avevamo visto debuttare in “Billy Elliot” altro film prodotto da Elton John e scritto da Lee Hall sceneggiatore di “Rocketman”, per parlare di squadre vincenti). L’America, il successo, le droghe, l’uscita dai guai: puntuali – e felicemente kitsch – arrivano gli altri capitoli. il ruolo di Elton John va a Taron Egerton, non si poteva scegliere meglio. Ha la stessa espressione a metà tra l’ingenuità – cosa mi sta succedendo? – e l’incrollabile fiducia nel proprio senso dello spettacolo, nome d’arte e abiti di scena compresi.

 

 

 

Di più su questi argomenti: