Beautiful boy

La recensione del film di Felix Van Groeningen, con Steve Carrell, Timothée Chalamet, Maura Tierney, Christian Convery

Mariarosa Mancuso

Il regista belga delle lacrime. Il nome sfugge, il ricordo di un film come “Alabama Monroe - Una storia d’amore” resta nella memoria di chi lo ha visto. Associato al fastidio dello spettatore che non ha nulla contro le disgrazie (succedono, si sa) ma non regge un certo modo di raccontarle. Per esempio, puntando su una colonna sonora costruita per potenziare e non per smorzare. Lì era il bluegrass ad avvolgere i protagonisti: un musicista, una tatuatrice e la loro sfortunata figliola. In “Beautiful Boy” ascoltiamo i Nirvana, i Beatles, Neil Young, David Bowie, mischiati con Perry Como. È la colonna sonora della famiglia Sheff: padre Steve Carrell, figlio Timothée Chalamet, a cui si aggiungono la nuova moglie di papà (Maura Tierney, la moglie tradita in “The Affair”: anche qui ha la faccia di chi ha tanto sofferto, ma comprende e vorrebbe essere d’aiuto, non solo ai suoi carinissimi figli). Nic – così si chiama il figlio grande, che ha raccontato la sua storia in un memoir – manda giù un po’ di tutto, ma quel che davvero lo acchiappa è la metanfetamina (per l’eroina in vena, impara da internet): “Il mondo era in bianco e nero e ora è a colori”. Il padre David Steff ha fatto lo stesso in “Beautiful Boy”, edizione italiana da Sperling & Kupfer (era un giornalista freelance, da un suo articolo sul Magazine del New York Times tutto è cominciato). Dunque: la famiglia – sia pure ricomposta – è felice, benestante, colta, affettuosa con una bella casa tutta legno e vetrate in California. Ma Nic a New York gira strafatto, dice bugie, ruba, salta la scuola, mancano soltanto le cattive compagnie (senza perdere un solo ricciolo attorno al faccino). Viene mandato a disintossicarsi, per un po’ funziona poi tutto ricomincia. Le bugie del figlio che ha ripreso a drogarsi (sempre senza perdere un solo ricciolo attorno al faccino) e la sofferenza di papà). E poi daccapo, fino a esaurimento del film (un po’ anche degli spettatori). Steve Carrell è bravissimo anche nelle parti drammatiche – lo sapevamo già – ma qui sembra che si applauda da solo. Timothée-chiamami-con-il-tuo-nome fa le prove di gigioneria che Luca Guadagnino gli aveva impedito.

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