American Animals

La recensione del film di Bart Layton, con Barry Keoghan, Evan Peters, Jared Abrahamson, Blake Jenner

Mariarosa Mancuso

Si può organizzare il furto di volumi preziosi senza sapere cosa sia un ricettatore? La scritta in apertura di “American Animals” avverte che il film “è una storia vera”. Non “ispirata a una storia vera”. Le tavole dipinte da John James Audubon tra il 1827 e il 1838, nel suo volume “Birds of America” (435 disegni, c’è il fenicottero il tacchino selvatico, e il pappagallo della Carolina ormai estinto) assieme alla prima edizione di “L’origine delle specie” furono davvero rubati da quattro giovanotti senza particolati qualità. Erano nella biblioteca della Transylvania University, a Lexington, Kentucky. Uno di quei posti talmente scarsi di prospettive che una rapina – pensata da un giovanotto che vorrebbe fare l’artista, e si rende conto che nella sua vita non è successo niente, né di tragico né di rilevante (ha letto altre vite d’artisti e ha fatto il confronto) – appare come una via d’uscita. Sempre meglio che passare le serate rubando carne dalla celle frigorifere. Senza sapere cos’è un ricettatore, e con un piano organizzato prendendo a modello le rapine del cinema (esempi altissimi, da “Ocean’s Eleven” a “The Italian Job”) l’aspirante artista e il complice con-borsa-di-studio-per-meriti-sportivi (più due altri, ugualmente scombinati e non sveglissimi) arrivano fino a Christie’s. Lì la grande avventura si ferma, nel febbraio del 2005. Il gioco tra verità e finzione negato nei titoli di testa riappare in “American Animals” con una sostanziale variazione. Già sperimentata nel perfido “I, Tonya” di Graig Gillespie, sulla pattinatrice Tonya Harding, celebre per il triplo axel e per una storiaccia finita con la rivale azzoppata alla vigilia delle Olimpiadi. Oltre agli attori (nella ricostruzione fiction), vediamo nelle interviste i veri rapinatori, ormai cresciuti. Non sono d’accordo su quasi niente, e non sembrano tanto più svegli di prima, mentre Bart Layton gioca con la cronologia e con i generi, al limite del narcisismo. Le bugie che le persone raccontano a se stesse era già nel suo documentario “The Imposter”: un artista della truffa che si spacciò come il figlio perduto di una famiglia texana.

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