La stanza delle meraviglie

di Todd Haynes, con Oakes Fegley, Millicent Simmonds, Jaden Michael

Mariarosa Mancuso

Todd Haynes e il suo direttore della fotografia Ed Lachman se la spassano, complice la costumista Sandy Powell, a ricostruire la New York coloratissima (e fracassona) degli anni Settanta. Con spasso anche maggiore, ricostruiscono la New York in bianco e nero (muta, come allora era il cinema) degli anni Venti. Son loro gli artefici del foliage in “Lontano dal paradiso”: foglie tra il giallo e l’arancione intonate ai capelli rossi della casalinga disperata Julianne Moore, ai suoi foulard lilla, alla sua macchina anni Cinquanta con le alette, al giardiniere nero che la vede infelice. Ultima meraviglia pervenuta, “Carol” con Cate Blanchett e Rooney Mara: lei ricca signora in visone e guanti, l’altra commessa avventizia in un grande magazzino per le vendite di Natale. Fa da pretesto una ragazzina nata sorda che nel 1927 va dal New Jersey a New York per incontrare la sua attrice preferita (conserva i ritagli in un album e invece usa le pagine del libro scolastico per costruire grattacieli). Altro pretesto: un ragazzino del Minnesota assordato da un fulmine che mezzo secolo dopo a New York cerca suo padre – la mamma è morta: unico indizio, un bigliettino trovato dentro un libro. Il titolo viene dalle “Wunderkammer”, collezioni di oggetti bizzarri da cui i musei discendono. Una vera fissazione, per lo sceneggiatore Brian Selznick (il film viene da un suo romanzo per ragazzi con lo stesso titolo, esce da Mondadori). In “La straordinaria invenzione di Hugo Cabret” – altro romanzo che alterna pagine scritte e pagine disegnate – aveva raccontato i pionieri del cinema e gli automi settecenteschi che con gran spreco di ingranaggi scrivevano con la penna d’oca. Martin Scorsese ne aveva tratto “Hugo Cabret”, che differenza di “La stanza delle meraviglie” non perde il filo del racconto, e ha due ragazzini-attori meno antipatici di Oakes Begley e Millicent Simmonds. Sospettiamo che al regista interessino più i musei e gli edifici. Abbiamo la certezza nell’ultima scena – strepitosa, ma arriva troppo tardi – ambientata al Queens Museum. Fa da sfondo a Julianne Moore il gigantesco plastico di New York costruito per l’Esposizione Universale del 1964.

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