Antonio Albanese (foto LaPresse)

“Contromano” di Albanese fa davvero cascare le braccia

Mariarosa Mancuso

È lo stesso Antonio Albanese di Cetto La Qualunque, di Alex Drastico, del brodo grigliato, del sommelier che fa girare il vino nel bicchiere per cinque minuti, prima di dichiarare solennemente “è bianco” o “è rosso”?

 

Davanti a certi film italiani meditiamo la fuga. Già quando li guardiamo, scena dopo scena, mentre alternano il ridicolo all’imbarazzo. Quando arriva il momento di scriverne è peggio: nel frattempo abbiamo letto le dichiarazioni piene di paroloni rilasciate dal regista, dagli sceneggiatori, dagli attori. Oltre a una serie di articoli lusinghieri che, come le dichiarazioni d’intenti, non sembrano aver nulla a che fare con quel che abbiamo visto sullo schermo.

 

Hai voglia a ripetere. Non siamo noi, sono loro. Avanza riserve oggi e avanza riserve domani, sottolinea che questo non fa ridere e quell’altro neppure (quest’anno erano divertenti soltanto “Metti la nonna in freezer” e “Un gatto in tangenziale”), fai notare che quell’attore recita sempre la stessa parte e quell’attrice pure, va a finire che loro si atteggiano a grandi registi incompresi, e noi rischiamo la figura dei borbottoni a cui non piace nulla.

 

 

Poi arriva un film come “Contromano” – diretto e recitato da Antonio Albanese, alla scrittura hanno collaborato Andrea Salerno e Stefano Bises, più Marco D’Ambrosio in arte Makkox – e davvero cascano le braccia. E’ lo stesso Antonio Albanese di Cetto La Qualunque, di Alex Drastico, del brodo grigliato, del sommelier che fa girare il vino nel bicchiere per cinque minuti, prima di dichiarare solennemente “è bianco” o “è rosso”? E’ verità nota e universalmente riconosciuta – ma non accettata, per quanto ci riguarda, e ancora vogliamo resistere – che il comico di successo prima o poi decida di mettere la propria arte al servizio di una nobile causa. Ed eccola qui, la nobile causa del momento: gli immigrati che certi sciagurati vorrebbero riportare in Africa.

 

La pensa così anche l’omino protagonista, un dì si sarebbe chiamato “maggioranza silenziosa”: pelato, fedele allo stesso bar, coltivatore diretto di costosissimi pomodori sul tetto del condominio milanese con vista sulla Torre Velasca. Venditore di calze pregiate – e nient’altro, parrebbe, dite voi se è un modello di business con i tempi che corrono – nel negozio con scaffali in legno. Finché un giovanotto nero si piazza davanti alla vetrina, spacciando calze in “filo di Svezia” e facendo ottimi affari.

 

L’omino pelato e con il cardigan decide di riportare il concorrente nel Senegal natìo. Ora finalmente qualcosa succederà, immagina lo spettatore. Niente affatto, continua a non succedere niente – sullo schermo, siamo sicuri che gli sceneggiatori avevano in mente tante sottigliezze e tante sfumature, così tante che nell’ingorgo non sono riuscite a fare il passaggio dalla penna alla carta. Arriva una ragazza nera, spacciata come sorella del venditore di calze, e l’omino pelato non le stacca gli occhi dal fondoschiena. Finalmente arrivano in Africa – si ringraziano le Grandi Navi Veloci per il traghetto – e i buoni sentimenti esplodono.

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