Foto di Direitos Urbanos via Flickr

Riportare gli spettatori italiani nelle sale si può. Ma con i film stranieri

Mariarosa Mancuso

Controproposta per Rutelli e Franceschini: far circolare qualche copia sottotitolata dei film non italiani 

Proposte innovative per far tornare il pubblico in sala. Le annunciano Francesco Rutelli, presidente dell’Anica (sciogliendo l’acronimo: Associazione nazionale Industrie cinematografiche audiovisive e multimediali) e il ministro Dario Franceschini. Son dichiarazioni impegnative; soprattutto di questi tempi, quando i film si possono guardare senza bisogno di uscire di casa e pagare il parcheggio.

  

Modesta proposta: per incassare qualche soldo in più converrebbe mettere a reddito gli altri canali distributivi. Subito, quando del film si scrive e si chiacchiera. Non quando il film è già stato sfruttato in sala: bisogna avere la testa girata all’indietro per trattare le piattaforme streaming alla stregua di una terza visione. (Era quando i film stavano in sala sei mesi, la terza visione arrivava nei cinema periferici con un considerevole sconto sul biglietto). Ammesso e non concesso che il cinema italiano abbia la bacchetta magica per riportare gli spettatori nelle sale a vedere i film made in Italy, non ci sarebbero né le sale né gli spettatori in grado di smaltire gli oltre 200 film italiani prodotti nel 2017. Duecento titoli vuol dire più di un titolo da guardare ogni due giorni, considerato l’anno solare. Ma per ottenere l’anno cinematografico italiano dobbiamo sottrarre i tre mesi estivi, e così se ne partono altri 90 giorni. Un tour de force da paura, non lo auguriamo a nessuno (anzi, a qualcuno sì: alle commissioni ministeriali che valutano le sceneggiature e ai produttori che le mettono in cantiere, tanto se non incassa vuol dire che è arte, qualche stato provvederà). Fortunatamente per noi molti di questi titoli escono in sala mezza giornata, giusto per essere rivenduti con un più rispettabile pedigree alle televisioni. Siccome amiamo farci altri nemici, vorremmo aggiungere un codicillo, alla nuova legge per il cinema da tutti lodata. L’obbligo di far circolare qualche copia sottotitolata dei film non italiani. Garantito che il pubblico c’è. Questa mattina in un cinema di Milano c’era più gente a godere “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” in versione originale con sottotitoli che a sorbirsi “Benedetta follia” di Carlo Verdone.

   

Sam Rockwell ha lavorato a lungo con con la sua dialect coach Liz Himelstein per acchiappare l’esatta parlata di Ozark, Missouri. E l’ha ringraziata dal palco dopo aver vinto il Golden Globe. Hanno fatto lo stesso, in altre occasioni, Nicole Kidman per “Big Little lies”, Evan McGregor per “Fargo”, Margo Robbie per “I, Tonya”, Emma Stone per “La battaglia dei sessi”. Vediamo le serie in lingua originale, se vogliamo e quando ci pare. Non si capisce perché il cinema – che tanto ancora se la tira rispetto alle serie – debba costringerci all’italiano senza sfumature dei doppiatori. I migliori del mondo, per carità (bisogna dirlo per non farsi altri nemici).

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