THE END OF THE TOUR – UN VIAGGIO CON DAVID FOSTER WALLACE

Mariarosa Mancuso

    Il più bel film mai girato su un romanziere, senza le solite scene dell’artista alla scrivania, tra tormento & ispirazione – in canottiera se si tratta di John Fante, o Luigi Lo Cascio in “Il capitale umano” di Paolo Virzì, va bene anche la vestaglia di Michael Douglas in “Wonder Boys”, dal romanzo di Michael Chabon. Senza artisti che guardano lontano, pensosi, ridotti alla fame dagli editori che rifiutano di riconoscerne il genio. “Come faccio a convincere mia moglie che quando guardo dalla finestra sto lavorando” è un pensiero sacrosanto, certificato nientedimeno che da Joseph Conrad: purtroppo ha convinto molti aspiranti romanzieri che la parte importante del lavoro sta nell’ispirazione, non nelle riscritture. Niente a che vedere con David Foster Wallace, che annoda la bandana per evitare che il sudore della fronte goccioli sulla tastiera. La domanda sul fazzolettone arriva tardi, è il tipo di curiosità che ogni giornalista ricaccia verso la fine dell’intervista: prima, si rischia di passare per frivoli e superficiali. David Lipsky non era un giornalista qualunque, un suo racconto fu messo da Raymond Carver nell’antologia Best American Short Stories 1986. Per incarico della rivista Rolling Stone andò nel 1996 a intervistare la star letteraria del momento: l’immenso “Infinite Jest” era appena uscito. Partì per il Minnesota, dove il book tour era arrivato agli ultimi giorni (la signorina della casa editrice, presentando David a David, fa un giro turistico alla statua di Mary Tyler Moore), registrò il registrabile, scrisse il suo articolo, e sembrava finita lì. Quando David Foster Wallace nel settembre 2008 morì suicida (e per il fan fu come se morisse un amico caro) David Lipsy ritirò fuori i nastri, li trascrisse per intero, ne ricavò il libro edito da minimum fax con il titolo “Come diventare se stessi”. Sembrava impossibile tirarne fuori una sceneggiatura, sembrava impossibile soprattutto trovare un attore che accettasse la parte. Con i suoi trascorsi nel cinema di Judd Apatow (e tutti i nudi frontali che il regista mette per pari opportunità nei suoi film) Jason Segel restituisce sullo schermo gli umori, le incertezze, l’ambizione, la passione per il cibo spazzatura, la dipendenza dalla tv, l’incantevole conversazione di uno scrittore geniale (a parità di talento, non tutti ne hanno una). Uno che sapeva essere postmoderno, quando voleva, senza far sparire i personaggi e rendere la lettura una corsa a ostacoli.