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dopo la finale

È ora che il Festival di Sanremo cambi le regole del gioco

Enrico Veronese

Vince Mengoni anche se la scena la ruba il bacio di Rosa Chemical a Fedez. Quel che resta è una grancassa di contenuti su cui forse per l'anno prossimo andrebbe fatta un'operazione sobrietà. Qualche idea

Ecco, la musica è finita. Sopra le assi del palco, al teatro Ariston di Sanremo, rimane qualche paillette scompagnata, il foglio volato da uno spartito, il profumo di olio dorato dalla pelle di Elodie Cleopatra. Marco Mengoni ha vinto, si sapeva fin dalla prima sera. Attorno a lui si è creato l’effetto Liniensuppe (zuppa di lenticchie) che ha retto la politica tedesca negli anni di Angela Merkel: ovvero non entusiasma ma è affidabile, è oggettivamente dotato, non delude e soprattutto non presagisce brutte sorprese. Qui non arriva la musica: Ultimo, dato per secondo da tutte le rilevazioni, è stato invece penalizzato dal nuovo sistema di votazione finale (cinque in ballottaggio, anziché tre), che ha portato - tipico delle consultazioni a doppio turno - i fan degli esclusi a convergere verso altre opzioni, pur di sbarrare la strada al più “distante”. Con franchezza, pur non riscontrando alcunché di esaltante nell’autore, nell’interprete, nel personaggio, nel brano e nell’immaginario, l’astio preventivo generalizzato verso Niccolò Moriconi - in arte, appunto Ultimo, ha raggiunto livelli inspiegabili, che hanno determinato tale assetto finale tra sala stampa, televoto e “giuria demoscopica” (ma a cosa serve, se ci sono già gli sms?).

Eppure della finale al 73° Festival della Canzone Italiana si parlerà a lungo, e non per questioni musicali. Il bacio in bocca di Rosa Chemical a Fedez, prelevato dalla prima fila, è destinato a fare epoca: autoavvera la profezia temuta da Fratelli d’Italia in Parlamento, supera di anni luce la tensione sessuale irrisolta tra Mahmood e Blanco un anno fa, assieme ad analogo footage nella seguitissima soap “Un posto al sole” porta il macrotema della visibilità alle masse dei grandissimi numeri. Baciano anche Coma_Cose, come fossero al Mi Ami, annunciando il matrimonio: ma ben si comprende lo scarto di contesto. Quanto bisogno di canzoni d’amore c’è, lo si capisce anche solo riascoltando “Tango” di Tananai: è bello, è bello, è bello, l’orchestrazione ricorda alcuni non-singoli andati di M83 come “Farewell/Goodbye” e “Safe”, potrebbe non terminare mai. E trasferisce in musica e video la storia vera di una coppia divisa dalla guerra (“è un anno che mi hai perso”), senza marciarci sopra con la promozione: suoniamolo per la sua universalità, premio Slava Ukraïni davanti al generale Dietrolacollina che ha aperto la soirée.

A proposito, erano molto attese le decisioni relative ai riconoscimenti paralleli: giusto il tributo della critica a Colapesce e Dimartino, dei cronisti già si sapeva, mentre lascia un po’ perplessi che il premio per il miglior testo sia stato assegnato a Coma_Cose - non che ci fossero chissà quali scritture eccellenti - e ancor più che Mengoni abbia messo le mani anche sopra la palma della miglior composizione musicale. Tante e tanti potevano esserne candidati, con titoli più credibili: Madame è Alice nel futuro, Lazza convince proprio per il backsound, addirittura i Cugini di Campagna si vestono di Phoenix grazie a La Rappresentante di Lista. Straniante, trattandosi del complesso più vecchio - in tutti i sensi - in lizza.

Ma questo, come rilevano puntuali osservatrici, è il paese dove se vivi abbastanza rimpiangi qualsiasi cosa: certe vite (e viti) non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano a vincere Sanremo dopo due lustri. Bastano tre canzoni in tre anni per presentare un medley, versione Duemilaventi delle cassette "I grandi successi" nei cestoni degli autogrill. Tutti pianisti per quindici secondi, anche i rapper: si leggono in queste ore le solite diatribe tra apocalittici e integrati, quelli che il Festival manco morto e chi comprende che non è più come ai tempi di Baudo. La società e le subculture giovanili sono entrate prepotentemente in scena, non solo nei monologhi delle presentatrici o negli strappi di un trapper dipinto: senza essere ancora una succursale dell’Eurovision Song Contest, come taluno vorrebbe, dal palco dell’Ariston si sono ascoltate basi French touch, EDM, profondità non aliene a Burial, interpretazioni pop stile Dua Lipa. Semmai a segnare un po’ il passo sono stati i nativi festivalieri, a riprova che il “fattore campo” è un concetto da eliminare come nel fantacalcio: è interessante come il sistema assorba, redima e cambi (Madame dalla strada malfamata al pop di classe), mentre precedenti vigilesse del fuoco scoprano in età avanzata l’ebbrezza del patetico incendio.

Ha tuttavia ragione chi sostiene che questo contenitore ipertrofico sia sostanzialmente amplificato dalla realtà aumentata nei social network: un volume assurdo di canzoni, chiacchiere, abiti, trasmissioni collegate, radio, interviste che si rincorrono senza sosta a ritmi che non consentono di sedimentare. Solo like veloci, freddure istantanee e commenti a pelle a brani non assaporati né spesso approfonditi: un unico, insaziabile, compulsivo scroll. Ricorrere al cambio di formula sarebbe il primo segnale di sostenibilità: in primis, un giorno di meno, consentendo al televoto di affiancarsi alla sala stampa già nelle prime due serate ed eliminando l’attuale giovedì. Quindi, venti concorrenti in luogo dei 28 (evitabilissimi i sei promossi da Sanremo Giovani) e abbandonare i momenti-verità, magari col ritorno in pianta stabile di grandi ospiti internazionali, oltre ai bestseller italiani: Depeche Mode più i venerabili Paoli e Vanoni tracciano la strada opportuna.

Resta il miracolo annuale di un’ondata di nuove canzoni, tutte assieme negli stessi giorni, come tartarughe neonate che cercano il mare a uova appena dischiuse, sapendo già orientarsi dove si trova. Alcune belle, altre promettenti, le più dimenticate presto, poche rimarranno in voga per settimane e mesi, adattandosi ai dettami di Darwin. Oggi valutiamo ciò che perdura nel tempo, ma tutte e tutti a febbraio hanno voglia di nuove parole, di suoni strani, di orchestre magnifiche; e di diventare scemi per una sola canzone, per cinque giorni (cinque giorni di Zarrillo, ovviamente). Si sciolgono i salotti, rarefatti i gruppi d’ascolto, prima o poi partirà il countdown verso Sanremo 2024: che sarà vinto da un pezzo scritto da Davide Petrella e Dardust, utilizzando ChatGPT e l’intelligenza artificiale.

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