(foto Ansa)

tupac de noantri

Il rap italiano, ovvero come ordinare spaghetti alle vongole in montagna

Costantino della Gherardesca

Perché i musicisti italiani continuano a scimmiottare i colleghi americani e ripiegano su una formula nata stanca?

A volte i pregiudizi sono una forma di preveggenza. Nel 1976, mentre la cultura punk prendeva possesso delle strade di Londra, Derek Jarman scriveva nel suo diario: “Gli istigatori del punk sono i soliti studenti dell’accademia di belle arti, piccolo borghesi che fino a qualche mese fa erano dei sosia di David Bowie e Bryan Ferry. Gente che ha letto un po’ di storia dell’arte e ha adottato lo stile tipografico e le cattive maniere dei dadaisti, e ora fa il possibile per improvvisare una reputazione da duri”. All’epoca Jarman aveva 34 anni e un inappuntabile curriculum da autentico iconoclasta: aveva creato le scenografie per uno dei film più belli e dannati della cinematografia inglese (I diavoli di Ken Russell) e girato Sebastiane, una delle prime pellicole mainstream nella storia del Regno Unito apertamente rivolte a un pubblico omosessuale. E proprio perché era un vero iconoclasta, Jarman intuisce al volo l’inautenticità dei punk e, soprattutto, ne individua le discutibili origini: degli scolaretti di seconda categoria che, non potendo mirare più in alto, hanno buttato la divisa del college nel Tamigi e si sono rivenduti come bulletti di periferia. Jarman vede al di là della cortina fumogena pseudorivoluzionaria dietro alla quale i punk cercano di ricostruirsi una verginità, e si rende conto di quanto sia posticcio il loro atteggiamento anticlassista. Nel 1978, la lucidità con cui aveva compreso questa ribellione di facciata gli permette di realizzare il suo secondo lungometraggio, Jubilee, forse l’unico vero film punk mai girato, ambientato in un futuro distopico in cui la musica e il culto del successo distraggono le masse dal degrado di una società fascista e violenta. Il personaggio centrale della pellicola è interpretato dall’attore Jack Birkett, meglio noto come “Orlando”, un ballerino e mimo non vedente, che nel film dice una frase memorabile: “Se la musica è abbastanza alta non sentiranno il mondo che cade a pezzi”. Una rivoluzione fatta con le chitarre è solo un’innocua distrazione.

 

Ora, io non sarò lucido come Jarman, ma negli anni scorsi credo di essere stato in grado, in qualche infausta occasione, di prevedere il futuro. Quando andavo alle medie, mentre da bravo occidentale dei miei tempi mi chiudevo in cameretta ad ascoltare la new wave, i miei compagni di scuola ascoltavano il rap, un genere che – a parte i Public Enemy e poco altro – non faceva per me: mi sembrava una cultura così lontana dall’Italia, impossibile da replicare qui. I miei coetanei delle medie, invece, pensavano di vivere in California e andavano in skate sugli sterrati della provincia, con drammatiche conseguenze ortopediche. Speravo che il fenomeno si sarebbe polverizzato nel giro di un’estate, come i loro menischi.

 

E invece, a ventitré anni, tornato in Italia dopo una lunga parentesi londinese, fui sorpreso da un fenomeno postmoderno paragonabile ai ristoranti Nikkei peruviano-giapponesi o al country western filippino che molti anni dopo avrei ascoltato sull’isola di Luzon: il rap italiano. Non l’ho mai preso sul serio, ma non per snobismo. E’ che mi sembra sensato come ordinare linguine alle vongole in un rifugio alpino a Dobbiaco. Eppure, se uno volesse trovare autentiche tracce di melting pot, in Italia avrebbe l’imbarazzo della scelta. Pensate al lavoro di ricerca che l’etnomusicologo Alan Lomax svolse tra il 1954 e il 1955, girando dalla Sicilia alle Alpi per registrare dal vivo canti funebri e ninnenanne, per immortalare una tradizione folklorica nella quale si mescolano armoniosamente influenze nordafricane, balcaniche e nordeuropee. Perché i musicisti italiani di maggiore successo non ripescano da questo sconfinato bacino sonoro? Perché scimmiottano i colleghi americani e ripiegano su una formula nata stanca?

 

Chi ascolta il rap italiano mi ricorda il pubblico del Moscow Music Peace Festival, la “Woodstock sovietica” che ha preceduto di poco la caduta del muro di Berlino. Quel concerto ispirò The Wind of Change degli Scorpions, la rock band tedesca che, proprio in quel festival, aveva suonato davanti a un oceano di giovani russi che si sarebbero venduti la madre per un paio di Levi’s. Ma come ci hanno insegnato Ronald Reagan e Richard Prince, non basta un paio di jeans per fare un occidentale.

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