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I prezzi impazziti dei concerti e la vita musicale che scorre nel mondo di sotto

Stefano Pistolini

Fino a mille dollari per un biglietto. Come cambiano pop e rock con il nuovo mercato (folle) del ticketing

Anche nella musica dal vivo, come negli scenari di quella registrata, si assiste a una rivoluzione copernicana, che modifica la percezione di questo consumo culturale. Lo intuisce con chiarezza il pubblico più adulto, i veterani, chi ha memoria di momenti storici in cui nel nostro paese proprio i concerti divennero oggetto strumentale di rivendicazione all’insegna del “la musica è di tutti” e dell’appropriazione di questo settore dell’industria dello spettacolo, vagheggiando fantasiose declinazioni del diritto alla felicità. Sta di fatto che negli anni Settanta la musica dal vivo, se era sovente al centro di turbolenze (autoriduzioni, cancelli sfondati, prezzi politici), veniva comunque offerta a costi più che accettabilmente concorrenziali. Senza addentrarci in complicati raffronti sul valore del denaro, basti ricordare che all’epoca il prezzo medio di un concerto pop/rock si aggirava sulle 3.000 lire, quando negli stessi anni si acquistava un long playing con una cifra appena inferiore, tra le 2.500 e le 2.700 lire. Poi per molto tempo le cose sono andate così, adeguandosi all’evoluzione delle economie, e solo l’ingresso nel nuovo millennio ha visto gli andamenti modificarsi radicalmente. 

 

Nel frattempo nel mondo della musica erano cambiate tante cose: lo streaming ha sostituito vinili e cd nel veicolarne il consumo, modificando le economie e la distribuzione dei guadagni, la grande finanza ha messo le mani sull’industria musicale lanciando il mercato della proprietà e dei diritti di sfruttamento e la pandemia ha paralizzato per un paio d’anni ogni circuitazione della musica live. Alla ripartenza il fenomeno del costo dei concerti ha assunto dimensioni impattanti sui consumi culturali planetari, al punto da finire negli Stati Uniti sui tavoli governativi, per valutazioni serie riguardo alle accuse di monopolio rivolte alla combinazione LiveNation/Ticketmaster, che oggi detiene l’organizzazione e lo sbigliettamento di un’impressionante percentuale dell’attività concertistica, imponendo le regole del gioco a cominciare dalla selezione delle location, degli itinerari delle tournée e della politica dei prezzi. 

 

Un paio di recenti episodi ha spedito il problema in prima pagina: la crisi di Ticketmaster nel processo di prevendita per il tour di Taylor Swift, con milioni di utenti impossibilitati ad accedere all’acquisto, a dispetto di prenotazioni, attese interminabili e defaillance del sistema informatico, con conseguente class action che ha costretto i responsabili a venire allo scoperto, chi scusandosi alla meno peggio (l’organizzazione), chi contrattaccando (la stessa Swift), chi dichiarandosi vittima impotente del nuovo sistema (molti suoi colleghi), col risultato finale di uno scenario troppo inconsapevole, disarmato e disinformato, da sembrar vero. E poi, pochi giorni fa, lo scandalo suscitato dalla diffusione del listino-prezzi per i ticket del nuovo tour mondiale di Madonna, che prevede una doppia data milanese. Gli esborsi richiesti sono sbalorditivi, variando dai 46 euro per i posti con visibilità limitata, in pratica dietro al palco, ai 90-350 del primo settore numerato, fino ai vip package che rasentano i mille euro. Sui social hanno tuonato gli arrabbiati, ma le serate sono andate esaurite, mentre c’era già da farsi venire l’orticaria consultando il prezzario di altri concerti prossimi venturi, messi in vendita con largo anticipo. E’ l’inizio della valanga: i biglietti per il tour americano di Bruce Springstreen con la E Street Band viaggiano a colpi di centinaia quando non migliaia di dollari, un concerto di Lady Gaga in uno stadio newyorkese oscilla tra i 400 e i 900 dollari, vecchie glorie del metal come i Def Leppard non si vergognano a pretendere 1.000 dollari per un biglietto. 

 

Arrivando da noi, le tariffe non miglioreranno: uno scenario da incubo, a cui contribuisce l’accaparramento dei tagliandi da parte delle organizzazioni telematiche del secondary ticketing, ovvero i bagarini autorizzati e altamente tecnologici che tramite robot rastrellano i biglietti, per rimetterli in vendita a prezzi da strozzinaggio, nonché l’affermato meccanismo del dynamic pricing, ossia l’oscillazione della quotazione di un biglietto sulla base delle richieste – come per i voli o gli alberghi – invariabilmente verso l’alto e con prezzi che arrivano a decuplicarsi, sulla base della richiesta del pubblico. 

Ticketmaster si difende sostenendo che il prezzo medio dei biglietti sia attestato sui 260 dollari – affermazione dotata di un involontario ridicolo – e che solo una modesta percentuale dei ticket, quelli più privilegiati, è soggetta a inflazione pilotata, senza contare il fatto che vendere i biglietti a prezzo troppo basso costituirebbe soltanto un incentivo agli speculatori del secondary ticketing, su siti come StubHub e SeatGeek. E’ pur vero che, per quanto possa provocare rabbia la vendita di biglietti a prezzi drogati come nel caso di Springsteen, una volta che i tagliandi vengono immessi sul mercato la questione sfugge dal controllo dell’artista e del suo management, traslocando nella dinamica richiesta-offerta. Insomma, anche se un biglietto per il Boss fosse messo in vendita a 20 euro, le enormi richieste renderebbero la sua circolazione in gran parte controllata dai professionisti dello sbigliettamento secondario, facendone lievitare il prezzo a quote impensabili – chessò, 800 euro. Ma a questo punto conviene cristallizzare l’analisi, spostando l’osservazione dalle procedure speculative a quelle di consumo.

 

Oggi chi, come e perché consuma musica dal vivo, anche solo limitandoci allo scenario nazionale? Se si guarda la parte alta del quadro, quello dei grandi tour internazionali e dei calendari dei campioni di vendita, salta all’occhio una descrizione diversa del momento-concerto, sempre più presentato, nell’atmosfera post Covid, come un evento, un momento eccezionale che sublima il rapporto tra artista e suoi ammiratori. I concerti, l’atto stesso di andare a sentire musica, vengono sottratti all’alveo della pratica abituale, seriale e continuata, per essere incorniciati alla voce “esperienza”. E per fare un’esperienza importante, si sa, il pubblico paga bene, oltre al fatto che nessuno è di certo obbligato a pagare più di quanto accetti di fare. Al tempo stesso la crescita esponenziale del costo-biglietti ha introdotto nuovi parametri relativi, a cominciare da quello dell’esclusività: chi partecipa a un concerto-evento acquistandone il biglietto, compra la sensazione d’essere parte di un’élite fortunata. Non a caso il biglietto-omaggio per un prestigioso concerto è divenuto il cadeau ricorrente nel circuito delle gentilezze aziendali verso i clienti, in particolare quelli nuovi, da attirare e annettersi. Insomma il mondo del pop e del rock viene ora sempre più spesso rappresentato come luogo dell’edonismo e del privilegio, a cui si può temporaneamente accedere per status, portafogli, o facendo un sacrificio economico rilevante. Pagando caro, appunto. Al tempo stesso il borsino degli artisti mostra andamenti più variabili che in passato e successo e celebrità sono attestati su durate limitate, anche per la differente configurazione nella circolazione dei prodotti. Un artista, nel momento in cui funziona, può alzare le pretese e sta a chi lo rappresenta capire fin dove spingersi. Se la gente paga per vederlo, lo fa per scelta, per devozione, per moda. Pagherà quanto vorrà pagare, oppure sceglierà di restare a casa. 

 

La sintesi del discorso è che la musica di oggi non è quella di ieri e nemmeno le somiglia, in tutte le sue componenti. Ne discende che anche il rapporto del pubblico con essa sia diverso e allestisca scenari nuovi. Ciò che è certo è che della musica non si può fare a meno, è parte della nostra vita, della nostra espressività, creatività e condivisione. Ma ciò significa che un nuovo pubblico, più giovane e con risorse economiche limitate, finirà per strutturare un rapporto con la musica e con la sua rappresentazione – i concerti, prima di tutto – diverso e lontano dal mainstream. Ovvero che progressivamente si organizzerà in proprio, attraverso circuiti e circolazioni indipendenti. Già, “indipendenti”: una parola che ciclicamente riappare, infastidendo il sistema. Ne aggiungiamo un’altra, per sollevare il velo su quanto sta già succedendo: “underground”, un mondo parallelo della musica in cui agiscono artisti provenienti dall’interno, e dove le economie sono sopportabili. Avulso dal Celebration Tour di Madonna. Ma dove artisti e pubblico tornano a somigliarsi in modo speculare ed empatico. Lasciando al mondo di sopra, quello dei prezzi drogati, le illusioni di divismo e di notti indimenticabili tra le luci dello showbiz. Nei club e nei locali la musica continua a fluire e, a chi la ama, costa quanto il biglietto del cinema. Consumazione inclusa.

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