(foto Ap)

Chissà quanto durerà, ma il fuoco acceso dai Måneskin non si sentiva da un po'

Stefano Pistolini

Si potrebbe dire che il nuovo disco "Rush" per la band romana equivale alla definitiva perdita dell'innocenza. Con una grande ansia per cercare di essere credibili

Perenne oggetto del contendere nel pallido confronto tra generazioni che tutto al più vale un programma tv della Marcuzzi, i Måneskin, veri o presunti rocker, tornano in scena col nuovo album “Rush!”, che esce oggi, tra roboanti annunci di un tour con mezzo milione di biglietti già venduti e iniziative promozionali che coinvolgono, ovviamente, come minimo Alessandro Michele (e chi pensavate? Giorgio Armani?). Insomma riparte il giochino Måneskin sì/no, ma solo tra bande di ostinati passatisti e cinguettanti modernisti del sabato pomeriggio. Più che altro va invece vista, prima di passare ad ascoltare, l’architettura del business edificato attorno alla band romana, osservare il ruolo loro riservato – scopertamente quello di starlet-oggetti, ma non più dei colleghi pop d’oltreoceano, ora trapiantati a Los Angeles, affiancati docilmente agli Stones per un’apparizione dedicata ai duri d’orecchi e poi spediti a registrare in giro per il mondo, col diktat di cantare in inglese – ci risiamo con la solfa del mercato internazionale, che ci fai con l’italiano.

 

Affidati alle cure di Max Martin, l’hit maker che ha magistralmente prodotto le banalità di Katy Perry e di Britney, con la commissione di plasmare dei Red Hot Chili Peppers per gli anni Venti, rimpinzati dei concept di ganza trasgressività del contemporaneo. Ma dall’altra – finalmente! – ci sono loro quattro, che col passare del tempo, dei chilometri, dei premi e degli sproloqui loro indirizzati, si dimostrano ragazzi di tempra e qualità, nemmeno fossero stati il frutto di una severa selezione, e invece sono nati proprio così, si sono riconosciuti e sono partiti. Damiano, Victoria, Ethan e Thomas tengono botta nel rush che li ha lanciati ma non travolti, surfano sulla celebrità e non mancano una convocazione, precisi come soldatini. Solo a guardare con attenzione, lasciano trasparire una certa stanchezza e quel soddisfatto cinismo che subentra allorché si afferra la regola del gioco nel quale ci si è cacciati. E proprio questa stanchezza, che è il contrario dell’apparente, istintuale sincerità dei modelli che venerano, rappresenta il punto debole del nuovo album, dove tanto ha l’aria d’essere calcolato – i 14 pezzi in inglese e i 3 in italiano, i brani tozzi, ritmati e circolari nella tradizione della band, alternati alle limitate divagazioni punkeggianti e al tot di ballate, invariabilmente melò.

Definitiva perdita dell’innocenza”, diagnosticherebbe uno strizzacervelli a questi pazienti entrati da una strana porta nel mondo del lavoro, ricevendone in cambio un’esperienza indimenticabile. Loro per adesso sembrano vivere tutto in apnea. Per stile, sono sempre più favolosi a ogni apparizione, salvo talvolta rasentare una veracità ridicola, un po’ da via del Corso. Si agghindano sovente con divise coordinate, come nei Sixties o sulle passerelle milanesi, ma si direbbe che ci credano, perché la bellezza rivendicata è uno dei pregi di questi post-rocker che disprezzano il culto del perdente. Sembrano coreografati in ogni movimento, mica solo sul palco, ovunque, in tv o in pubblico. Ogni movimento è armonico, sintonico, coordinato, come se interpretassero dei tableau vivant a raffica (succedeva coi Beatles, ma per carità non è un paragone, solo una constatazione dei ricorsi).  Ovviamente beneficiano della confezione e i videoclip sono il loro habitat naturale, di solito con arzigogolate sceneggiature (vedi “Gossip”, l’ultimo uscito, firmato dal bravo Tommaso Ottomano).

 

Il tema della credibilità per loro è talmente all’ordine del giorno da diventare ricorrente nei testi delle canzoni, in un’ansia perenne di garantire il proprio status di veridicità. Ma poi nelle liriche, con un entusiasmo da fans, fanno anche transitare gli Smiths, i Nirvana, di nuovo i Beatles, perché come dichiarano in “Kool Kids”, si sentono “dipendenti dal rock’n’roll”. Damiano David offre varie performance vocali di livello, diverse tra loro, al limite del mimetismo col genere che affronta, confermandosi l’anima identitaria della band e naturalmente brillando di più nella sua lingua, come ne “Il dono della vita”, il pezzo più spontaneo della scaletta. In inglese, invece, alterna addirittura accenti diversi (prendiamola per una presa in giro di ritorno), si vanta dei miliardi di streaming (difficile immaginare che i Led Zeppelin avrebbero scritto un versetto del genere), garantisce che loro non si drogano, al massimo erba, si lamenta di un mondo governato da pazzi sanguinari e pronuncia una frase tristemente broccolino come “They ask me why I’m so hot, ‘cause I’m Italiano”, che vogliamo intendere come una strisciante, feroce ironia.

Il volo dei Måneskin in ogni caso ormai è in quota, l’apparecchio tiene e il vento è in poppa. Durerà quanto durerà, ovvero il giusto. Poi arriveranno i progetti solisti, la maturità senza più make-up, le riflessioni sul viaggio eccezionale cominciato suonando per strada, nel centro di Roma. C’è una certa tenerezza, una nervosa affettività che spunta verso questa storia. Capace comunque di riaccendere un fuoco spento molti anni fa, di riscaldare i presenti e di offrire un breve, emozionante brivido a chi non pensava di poterlo mai provare.

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