(foto EPA)

Com'è futile, peggio: feroce, scoprire che Domingo non ha più voce e nemmeno memoria

Alberto Mattioli

Non c'è alcun motivo artistico per interessarsi alle esibizioni dell'artista spagnolo, andato in scena all'Arena di Verona. Semplicemente non riusciamo a distaccarcene per ragioni sentimentali (e perché lo crediamo eterno)

Povero Placido Domingo. Torna all’Arena di Verona per una due giorni glorificatoria che si conclude in catastrofe sia per il Topone cantante che per il Topone direttore d’orchestra (sì, nell’ambiente è soprannominato così, non chiedetemi perché). Chi scrive non c’era, per fortuna, ma fonti fededegne riferiscono di un Domingo duale ma egualmente disastroso. Come baritono, era tutta un’afonia e un’amnesia, in una serata di spezzatino verdiano con un atto di Aida, uno di Simone e uno di Macbeth, finché dagli altoparlanti non è arrivato l’annuncio liberatorio che stava male e, in scena, un Macbetto di riserva. Come direttore, ha mandato a scatafascio Turandot, tanto che l’Orchestra dell’Arena per protesta non si è alzata quando agli applausi finali, che pure ci sono stati, Domingo l’ha invitata a farlo: bacchettata la bacchetta, insomma. Sono seguiti un comunicato delle femministe locali (per pregressi scandali sessuali) e uno della Cgil, entrambi molto critici con il diretto interessato e la Fondazione Arena, cui sovrintende l’unica sorella d’Italia competente piazzata in un ruolo di responsabilità culturale, l’ex soprano Cecilia Gasdia, a sua volta in attesa di rinnovo del mandato da parte del neosindaco di sinistra di Verona, il pio ex calciatore Damiano Tommasi. E avanti con gli articoli in cui si scopre che Domingo ha 81 anni e sarebbe ora che si ritirasse. 

 

Fin qui la cronaca. Tre premesse prima del commento. Prima: Domingo in realtà non è nato nel 1941 come dice e come ha anche fatto incidere sulla lapide della casa natìa, a Madrid, ma qualche annetto prima, con precisione non si sa perché la sua vera data di nascita rimane il segreto meglio custodito della lirica mondiale. Seconda: sul #metoo che l’ha pesantemente coinvolto sorvoliamo, perché è stato sbattuto fuori dai teatri americani senza che ci fosse non dico una condanna penale, ma nemmeno un’indagine. Terza: sì, effettivamente sarebbe meglio che si ritirasse, e se non lo decidesse lui, nei secoli fedele al suo motto “If I rest, I rust”, se mi fermo arrugginisco, dovrebbe deciderlo per lui la sua corte di familiari e agenti. Ma il Topone, evidentemente, dispensa ancora delle uova d’oro.

 

Detto questo, soltanto chi non sa di cosa sta parlando può pensare che ci sia qualche motivo artistico per interessarsi alle esibizioni di Domingo. A ottantuno e forse più anni, semplicemente, non si canta: né da tenore qual era, e grandissimo, né da baritono quale non è mai stato e nemmeno da basso quale magari diventerà. Le amnesie non sono certo una novità: nel 2017, nel Tamerlano di Händel alla Scala, andò in bambola durante un lungo recitativo secco, cantò “Oh, la mia testa!” e si buttò a terra (sensazione generale: in platea, si svegliarono dall’abituale torpore perfino i più stagionati reperti assiro-milanesi). E come direttore ha sempre diretto male, o almeno non bene. Se si va ancora a vedere Domingo non è per ragioni musicali, ma sentimentali, non prive di una certa componente necrofila (come sarà messo? Morirà in scena?). E’ come la Regina Elisabetta: indipendentemente da quel che fa, gli si è affezionati perché c’è sempre stato e, si direbbe, sempre ci sarà. L’eternità del Topone ci dà l’illusione della nostra. E poi l’abbiamo troppo amato per criticarlo. Per la sua statura artistica, quando nell’ultimo atto di Otello faceva piangere tutta la Scala, ma anche per il suo modo aristocratico e scanzonato di porsi, la sua sprezzatura ironica e un po’ cinica, il suo saltabeccare in jet privato da una recita all’altra, in una bulimia di successo, di fama, di donne, di soldi così sfacciata da risultare innocente: cialtrone talvolta, grande artista spesso, signore sempre. Com’è futile, peggio: feroce, scoprire oggi che non ha più voce e nemmeno memoria, se l’unica memoria che ci interessa non è la sua, ma la nostra, quella del tempo che fu, quando la sua voce faceva la magia di esprimere quello che tutti sentiamo. E’ finito? Sai che notizia. Ma perché infierire? Lo dice anche padre nostro Verdi per interposto Monterone: “Slanciare il cane al leon morente è vile” (Rigoletto, atto primo, scena sesta).

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