André Segovia (foto Olycom)

il ricordo

Le corde giuste di Andrés Segovia, poeta della chitarra

Stefano Picciano

Cinquant’anni fa un recital del leggendario musicista spagnolo che incantò il Teatro alla Scala. Breve storia del maestro che divenne uno dei più amati solisti del Novecento

Quattordici novembre del 1971. Alcune fotografie ritraggono l’immagine del solista, seduto al centro del palco, avvolto dalla penombra della scena in un istante che pare immortalare l’attenzione, nella platea e sui palchi, di un pubblico raccolto in un silenzio forse ancora più profondo del solito per ascoltare il suono di uno strumento inaspettato. Al centro della scena c’è Andrés Segovia, lo straordinario poeta della chitarra che è divenuto uno dei più amati solisti del Novecento. In quella serata di cinquant’anni fa, sul prestigioso palcoscenico del Teatro alla Scala – avvezzo alle grandi sonorità orchestrali del melodramma, ma non certo al tenue suono di una chitarra – si ospitava per la prima volta il protagonista di un percorso artistico che aveva preso le mosse sessant’anni prima, quando il baldante andaluso aveva iniziato a tenere concerti con uno strumento che si reputava inadatto alla musica d’arte perché vincolato piuttosto, nella mentalità comune, all’espressione spontanea del canto popolare. Egli, invece, avrebbe condotto la chitarra a una dignità artistica prima inimmaginabile, spalancando a essa le porte della musica colta e facendo conoscere al pubblico il suo suono delicato ma profondo: “La chitarra suona piano, ma lontano”, avrebbe dichiarato Igor Stravinsky. Intraprendendo una carriera di inedita ampiezza, Segovia era apparso fin dall’inizio determinato a perseguire gli obiettivi prefissati: “La chitarra troverà un posto nelle sale da concerto identico a quello degli altri strumenti”.

 

Andrés Segovia e il leggendario concerto alla Scala di Milano

Così già nel 1927 la critica, ascoltandolo, aveva scritto: “Egli ha estirpato un errore (…) molto frequente tra appassionati e musicisti: il considerare la chitarra come uno strumento di scarsa importanza, di limitate competenze musicali. Questo strumento (…) può commuovere come commuovono un piano o un violino”. Fu una vera e propria missione artistica, che non tardò a raccogliere i primi frutti, come vediamo sfogliando, ingiallite dal tempo, le pagine dei quotidiani di allora: “Coloro che hanno assistito alle interpretazioni del Segovia son passati da sorpresa a sorpresa” (1927); “dalle sue mani uscirono cose mai udite” (1955), e ancora: “Dovette sembrare una rivelazione alla maggior parte dei convenuti al concerto, perché pochi avrebbero potuto immaginare le attitudini e le possibilità di questo strumento”. E’ la meraviglia che in modo costante accompagnerà le cronache dei suoi concerti: la chitarra è arte, e Segovia continua a mostrarlo dal 1909 fino al 1987. All’epoca del recital alla Scala il maestro spagnolo si trova già nella fase conclusiva della sua vasta carriera: molte sono, in quegli anni, le espressioni di stupore per la tempra dell’anziano concertista che, nonostante l’età e la fatica, continua a salire sul palco con una determinazione irriducibile, che lo porta a più riprese anche in Italia: nell’arco della sua lunga carriera Segovia tiene nella nostra penisola circa duecento concerti, dal debutto a Milano nel lontano 1926 fino agli ultimi, storici concerti nel 1985. In quegli ultimi anni il maestro riceve gli applausi e ironizza, talvolta saluta il pubblico con una battuta (“io continuerei, ma la chitarra è stanca…”), e conquista sempre di più l’ammirazione e l’affetto di teatri stracolmi, pressati sulla strada da legioni di delusi che non riescono ad entrare.

E’ la fase aurea di una carriera memorabile, che ha definitivamente associato la sua figura all’immagine stessa della chitarra classica, restituendole il ruolo di strumento solista e mettendone in luce le possibilità estetiche. Non che la storia della chitarra incominciasse con lui – beninteso – poiché egli mosse i suoi passi su un cammino già tracciato dagli illustri maestri della generazione precedente; ma lo fece, senza dubbio, con un’energia e una tenacia senza eguali: dall’Europa alle Americhe, dall’Asia all’estremo oriente ricorre, nelle cronache dell’epoca, lo stupore. E’ l’inattesa meraviglia per quel suono corposo e penetrante, dal timbro evocativo e multiforme, quel fraseggiare colmo d’una espressività vibrante, sempre tesa al lirismo e alla cantabilità. E’ il fascino di una sonorità lieve, pensosa e umbratile, che esige il silenzio necessario all’epifania di una bellezza sussurrata. Così, le iniziali riserve avanzate da alcuni per i limiti di uno strumento che pare strutturalmente esile e tecnicamente impervio vengono meno dinnanzi al riconoscimento di una poesia d’indiscutibile bellezza. Ecco che la chitarra acquista un’identità nuova, ecco che anche le sei corde divengono – per chi abbia la disponibilità ad ascoltare – veicolo inatteso e sorprendente di una bellezza ineffabile, di quel quid misterioso che rende l’arte ciò che essa è. Attraverso il rapporto con i compositori, Segovia assunse un ruolo decisivo nella formazione di gran parte del repertorio novecentesco; prendendo le distanze dai maestri delle avanguardie – cosa che talora gli procurò critiche – favorì la commissione di opere a quegli autori che rimanevano legati a un tardo romanticismo affascinato, per così dire, dall’impressionismo musicale.

Le opere dei grandi compositori del passato, nella delicatissima arte della trascrizione, trovarono sulla chitarra un’inaspettata e sorprendente voce, così come brani di musica antica che allo strumento si adattano con efficacia, insieme alle pagine originali che i maestri coevi vollero comporre. Amico di Garcia Lorca, D’Annunzio, Bergson, ammirato dai maggiori musicisti del Novecento e conteso dai festival di tutto il pianeta, Segovia è l’immagine del concertista instancabile (più di una volta raccontò divertito l’esperienza di svegliarsi al mattino e non ricordare in quale continente si trovasse) tutto teso allo scopo della sua missione. Riferendosi ai continui viaggi in aereo ironizzava: “Conduco una vita sedentaria a 800 chilometri all’ora”; ma subito aggiungeva: “Chi viaggia non invecchia. Quando l’acqua è ferma ristagna; invece quando corre si mantiene giovane, conservando la sua freschezza”. Una moltitudine di allievi segue il maestro ai corsi che tiene all’Accademia Chigiana di Siena negli anni Cinquanta: a essi – si osserva in alcuni filmati dell’epoca – offriva un giudizio deciso e risoluto, evitando sempre, però, di indurli all’imitazione, per spronarli piuttosto a ricercare la propria identità musicale: “Non devi essere il secondo Segovia – amava ripetere – ma il primo te stesso!”. Ai giovani spiegava che “bisogna ascoltare attentamente il suono della chitarra”, (…) perché “ogni nota è piena di poesia”: è un’intensità del dettaglio che si scopre attraverso l’osservazione, l’attenzione, la pazienza dell’interprete, che può allora scoprire nuovamente un’opera già conosciuta, imparando a trarre fuori tutta la bellezza che sta dietro ogni nota. Così in quel 14 novembre di cinquant’anni fa si scrisse che “Segovia portò l’arte dello strumento (…) ad altezze non mai prima raggiunte”, e proprio in riferimento a quel recital alla Scala si aggiunse: “Con trepidazione si pensa al dolce, vaghissimo suono della chitarra di Segovia inerpicarsi entro la grandiosa càvea, sacra ai furori verdiani e ai clangori di Wagner; non è mai esistito un altro caso di musicista che, come Segovia, susciti tanto entusiasmo con mezzi sonori così delicati e discreti”. La conclusione è presto detta: “Se la chitarra ha trovato il posto che si merita nelle sedi concertistiche e fra le aule accademiche lo si deve in gran parte proprio ad Andrés Segovia”.

L'artista che nobilitò la chitarra classica a livello mondiale

Subito dopo il concerto a Milano, il maestro rilasciò un’intervista nella quale sintetizzò i tratti essenziali del suo itinerario: “Ho dedicato la mia vita a quattro opere: innanzitutto, riscattare la chitarra dal folclore; in secondo luogo, crearle un repertorio nobile composto per essa da grandi musicisti; poi, fare in modo che i grandi conservatori si dedichino anche all’insegnamento della chitarra e, infine, rendere noto questo strumento nel mondo”. Si pensò, allora, che quello alla Scala sarebbe stato uno degli ultimi concerti, né sarebbe stato possibile immaginare che il maestro avrebbe continuato a tenerne sino alla metà degli anni ottanta. Segovia proseguì tenacemente il suo itinerario, decidendo di non ritirarsi dalle scene, e se in quegli ultimi anni la purezza del suono poteva non essere più quella d’un tempo, la sua interpretazione, riempiendo il silenzio del teatro, apriva all’ascoltatore attento la manifestazione d’una ineguagliabile poesia. Non era più, allora, l’energico concertista di trent’anni prima, eppure si assisteva al riaccadere d’un fascino intramontabile, forse ancora più profondo e scavato dal tempo. Era il rapporto con ciò che da tutta la vita egli aveva inseguito, era l’inesauribile amore per una bellezza che non si riesce mai ad afferrare del tutto, e che pure continua ad attirare a sé, in un’instancabile ricerca. Dopo un concerto del 1985 – durante l’ultima tournée italiana, tenuta a novantadue anni – Massimo Mila commentò: “Un concerto così è un’esperienza di stile unica, che bisogna racchiudere nella memoria per sempre, come un termine di paragone”.

L’età richiede ormai decise attenzioni, ma lui pare non accorgersene: quando gli amici più intimi gli suggeriscono di fermarsi un po’ in patria per riposare, Segovia declina cordialmente l’invito, e imperterrito progetta l’ennesima tournée, che intraprende poco dopo negli Stati Uniti, e che dovrà suo malgrado interrompere, tornando a casa. L’itinerario di Andrés Segovia si conclude il 3 giugno 1987, lasciando alla musica un’eredità artistica difficilmente quantificabile, che ci appare come uno di quei mille tesori che la storia della musica – troppo spesso in silenzio – custodisce, e che meritano la nostra attenzione soprattutto oggi, mentre buona parte della società pare distogliere lo sguardo dal bello per abbandonarlo a più fragili e immediati versanti, mentre il nuovo umanesimo nel quale siamo immersi, anziché mettere a tema l’umanità che nell’arte si esprime, pare talora adoperarsi per occultarla. Non sarebbe vano allora, proprio in questo contesto, recuperare il valore della dimensione estetica e riscoprirsi meravigliati osservatori di chi, come questo maestro, ha speso la vita inseguendo la bellezza dell’arte. Quell’arte che – nelle sue molteplici forme ed espressioni – con tenace, paziente insistenza di fronte all’indifferenza dei più, continua a parlare anche all’uomo di oggi.

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