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il foglio del weekend

Di Capri e le sue stelle

Francesco Palmieri

Dalla timidezza con Moravia alla canzone di Totò, dalle aperture dei Beatles all’insegnante di pianoforte. Il cantante di “Champagne” va in tour. A ottantadue anni, è la più longeva leggenda della musica italiana

Sarà accaduto nella tenue allegria di un brindisi di compleanno o per le nozze di qualcuno; in un anniversario che tanto o poco ci riguarda; al termine o al principio di una serata senza intenti oppure densa d’illusioni. Sia come sia una cosa è certa: almeno una volta Peppino di Capri s’è intrufolato nelle nostre vite col motivo di “Champagne”. Si esibì la prima volta nel ’43 come bimbo prodigio per i soldati americani che occupavano l’isola dalla quale lui, Giuseppe Faiella, derivò il nome d’arte; l’ultima si è esibito venerdì 10 settembre nell’ex Base Nato di Bagnoli, che è stata simbolo di Napoli contemporanea come le portaerei dell’Us Navy nel Golfo o il Vesuvio senza più pennacchio di fumo. Perché parlare di Peppino Di Capri, che nel ’43 di anni ne aveva quattro e venerdì scorso ottantadue compiuti, è parlare di una stella fissa sopra diverse generazioni. Una durata artistica ineguagliata attraverso quindici partecipazioni (due vittorie) al Festival di Sanremo e più di cinquecento canzoni interpretate: dai classici napoletani ai twist che lui lanciò in Italia, dai brani confidenziali per piano bar ai pezzi melodici come “Un grande amore e niente più” fino al rap con Gué Pequeno che ha riproposto – guarda un po’ – l’intramontabile “Champagne”.

Eppure Peppino di Capri, quando glielo chiediamo, confida che la canzone preferita non è sua ma resta “Voce ‘e notte” seguita da “I’ te vurria vasà”: due perle del repertorio classico rivitalizzate dalla sua interpretazione nel “momento della verità”. Quello in cui si presenta sul palco e canta dal vivo. Sfida pacatamente il tempo dei suoi anni e questo ch’è venuto dopo la pandemia in un’estate punteggiata di concerti per l’Italia, da Udine a Taranto.

“Sono serate più difficili da misurare: quando vedi due sedie piene e due vuote per il distanziamento sanitario, sei tu stesso diviso a metà. Ma appena prendi a cantare si riaccende, fra te e il pubblico, una magia spontanea come se scendesse un angelo in punta di piedi. Cerco ancora di dare il massimo perché so che la chiave giusta per durare è restare affezionati a quel che si fa. Se non lo vivi così, meglio cambiare mestiere”, dice Peppino di Capri, al quale preme ricordare accanto alla musica l’affetto per i figli Igor (con la prima moglie Roberta), Edoardo e Dario (con Giuliana, seconda moglie scomparsa di recente).

Può dirsi che, se tutti lo conoscono, lui abbia conosciuto tutti. Gli sfiliamo perciò, in un pomeriggio caprese di fine estate, qualcuno dei ritratti dalla sua sconfinata galleria, cedendo la parola a lui che li racconta meglio.

 

Baglioni. Fuori dai riflettori, la timidezza è il mio maggior difetto e mi spiace che sia scambiata per alterigia o strafottenza. Una sera, a non so quale galà in un bel palazzo romano, capitai a tavola con Alberto Moravia e due signore, un’inglese e un’americana: chiacchierarono tutto il tempo tra loro come se io non esistessi. Non riuscii a intervenire nemmeno quando discutevano di Michael Jackson, su cui considerando l’argomento potevo finalmente aprire bocca anch’io. Prevalse la solita timidezza. A un certo punto col microfono chiamarono me e Claudio Baglioni sul palco per eseguire “Reginella” a due voci. Tornato al tavolo fra gli applausi, esclamarono: “Ma come! Eravamo seduti con Peppino di Capri e non ce n’eravamo accorti!”. “Scusate”, risposi, “quando uno si presenta è raro che si capisca bene il nome”.

Beatles. Nel 1965 gli feci da spalla nel loro unico tour italiano. Non ero emozionato ma preoccupato di cantare prima, perché quando c’è una vedette il pubblico è impaziente di liquidare il supporter. Invece me la cavai bene perché avevo cinque o sei brani nella classifica dei 45 giri. L’esperienza coi Beatles fu dal punto di vista umano pari a zero: neanche nel volo da Genova a Roma, su un Fokker noleggiato apposta, me li fecero avvicinare perché riposavano. Mi resta solo una foto assieme scattata l’ultimo giorno, che conservo gelosamente. Credo si aspettassero più entusiasmo dal pubblico italiano e ci rimasero un po’ male. All’inizio i nostri discografici non avevano pesato bene la portata di quel fenomeno: scovai il provino di un loro brano che s’intitolava “Girl” e sembrava una canzone napoletana. Lo incisi su 45 giri prima ancora che lo pubblicassero in un album, anche se per questioni di esclusiva non si poteva fare.

Bongusto. Con Fred s’inventarono una rivalità che non c’era. Suonammo persino insieme. Semmai era lui, che aveva raggiunto il successo qualche anno dopo di me, a imitarmi in parecchie cose. Dalle giacche di lamé, che fui il primo a indossare sul palco, alla passione del tennis. Io mettevo quelle giacche e lui pure, giocavo a tennis e ci giocava anche lui. Diciamo che gli piaceva il mio modo di fare.

Califano. Franco scrisse le parole di “Un grande amore e niente più” con cui vinsi il Festival di Sanremo del 1973. Tuttora quando la intono in concerto il pubblico non si trattiene dal cantarla con me anche in Sud America, dove conoscono il testo a memoria. Franco quando provavamo non era mai soddisfatto, finché presi il foglio e sentenziai: “Basta, non si cambia più una virgola”. Me la sentivo già cantata addosso. Con Califano non ci siamo frequentati, c’incrociavamo solo in qualche trasmissione televisiva. Amava le battute, anche quelle assai spinte, ma era una persona bella d’animo. Le canzoni che ha scritto gli salivano dal fondo del cuore.

Carosone. Conobbi Renato che ero ragazzino. Quando suonava con la band a Capri, all’ultimo momento aveva spesso bisogno di qualche strumentino particolare, dalle maracas ai bonghetti, e veniva da mio padre che aveva un negozio musicale e si esibiva a sua volta, essendo violoncellista diplomato e polistrumentista. Carosone è stato un grande, inventò un genere attingendo dall’America. Ma i suoi brani, salvo rari casi come “Maruzzella”, giocano sull’amore per divertimento, mentre io canto con taglio romantico. I suoi pezzi si fischiettano di giorno, i miei sono valorizzati dalla notte. Magari con la luna piena che si specchia nel mare.

Daniele. Da bambino suonai per le truppe alleate, mentre Pino apparteneva a tutt’altra generazione: la sua vena americana non gli derivava tanto da un contatto diretto, piuttosto gliela alimentarono gli ottimi strumentisti di cui si contornava e che pescavano in quella direzione. Giovanissimo, venne con la chitarra nel mio studio di registrazione napoletano, a Fuorigrotta, per propormi di lanciare qualche sua canzone. Chiesi di sentirle. Ne eseguì una ma disse: “Questa è bella, la terrei per me”; ne fece una seconda e ripeté: “Anche questa la vorrei conservare per me”; stessa cosa alla terza sicché sbottai: “Allora perché sei venuto?”. Alla fine mi lasciò un pezzo minore intitolato “Dimane” che incisi nel ’79, quando lui aveva già raggiunto il successo. Pino aveva il suo caratterino: grandi manifestazioni di simpatia se era su di giri, ma se gli prendeva male neanche ti rispondeva al saluto. E’ che ogni artista ha la sua personalità spesso difficile, perciò non mi sono mai sentito di biasimarlo.

De Crescenzo. Molti ricorderanno che Luciano affermava di soffrire di un disturbo per cui non riconosceva le facce, al punto che girava con un bigliettino di scuse in tasca qualora qualcuno vedendosi ignorato rimanesse offeso. Una volta lo incontrai a Capri, la mattina di Natale, in compagnia di una bella ragazza: loro due soli al centro della Piazzetta in una magnifica giornata di sole. Mi sentii chiamare da lontano: “Peppino, Peppino, solo tu mi puoi salvare! I ristoranti sono tutti chiusi, aiutami a trovare un posto per mangiare…”. Ah, pensai, stavolta non hai usato il bigliettino, com’è che mi hai riconosciuto subito?

Eduardo. Lo vidi in due occasioni all’Hotel Londra a Napoli in piazza Municipio. La prima volta entrai nella hall mentre leggeva il giornale con gli occhialini calati sul naso. Alzò lo sguardo e mi apostrofò: “Guaglio’, arapete ‘nu ristorante!”. Rimasi interdetto reputando l’esortazione come una stroncatura e chiesi perché. Rispose: “Ricordati una cosa, la gente deve mangiare sempre...”.  Dunque chissà, era forse un consiglio. Sei anni dopo, stesso albergo stessa scena. Entro nella hall e c’è lui col giornale sempre in quella poltrona. Stavolta neanche alza gli occhi e mi domanda direttamente: “Guaglio’, t’aje araputo ‘o ristorante?”.

 

L’insegnante di piano tedesca. Originaria di Düsseldorf, s’era trasferita a Capri col marito, un violinista molto bravo che suonava nei locali notturni. Mio padre mi mandava a lezione da lei tre volte a settimana, dal centro storico dove abitavo fino a casa sua era una bella scarpinata. Molto severa, si chiedeva come mai i miei polsi si “indurissero” malgrado gli sforzi didattici. Non sapeva che, oltre a studiare musica classica, a dodici anni suonavo nei night finché una volta, verso le due del mattino, uscendo da un locale dove mi ero esibito m’imbattei nel marito: “Che fai qui a quest’ora?” domandò. Inventai che aspettavo mio padre, farfugliai qualcosa ma non mi credette e riferì alla moglie. Lei l’indomani a lezione m’investì urlando e bestemmiando in tedesco. Convocò papà e non volle sentire ragioni: mi cacciò. Fu la mia salvezza. La musica classica l’avevo affrontata per apprendere la tecnica, la diteggiatura, però preferivo altri generi cui da allora mi dedicai completamente.

Onassis. Quella sera fu un incubo. Non sapevo chi fosse questo signore che s’era piazzato alla coda del pianoforte, rimanendo tutto il tempo a fissarmi mentre suonavo senza distogliere lo sguardo. Non alzavo più la testa dalla tastiera per non vederlo e provavo un disagio crescente, finché non ne potetti più e invocai: “Toglietemi davanti questa ciucciuvettola (civetta; ndr)!”. Accorse mio zio, che gestiva il bar, e mi mollò un sonoro scappellotto: “Non ti lamentare e suona, sai chi è quello? E’ Aristotele Onassis!”. Al tavolo che aveva lasciato per impietrirsi innanzi a me, mi spiegarono, erano seduti Jacqueline e i principi di Monaco. Mi capitò un’altra volta, nel ’60, di suonare al cosiddetto Ballo dei Re a Palazzo Serra di Cassano a Napoli, dove convennero da vari angoli del mondo sovrani, principi, nobili (e affini, come direbbe Totò).

Roberta. Tutti pensano che siccome la mia prima moglie si chiamava così, l’omonima canzone fosse dedicata a lei e descrivesse la nostra crisi sentimentale. Non ho mai smentito ma adesso dico la verità: all’epoca del brano, nel ’63, eravamo sposati da appena due anni e andavamo d’accordissimo. Nella stesura originaria gli autori non avevano previsto alcun nome. I versi dicevano solo: “Ti prego ascoltami / Ritorna ancora ti prego”. Sentivo che così non funzionava, mi arrovellavo finché una notte fui illuminato da un’idea e cambiai: “Roberta ascoltami / Ritorna ancora ti prego”. Quel nome era perfetto per la metrica e inoltre stuzzicava la fantasia degli ascoltatori. Ovviamente i giornali di gossip cominciarono a ricamarci e la leggenda della dedica a mia moglie si consolidò.

Totò. Mi diede appuntamento a Roma, dalle parti di via Teulada, per sottopormi una canzone che aveva appena composto. Ci andai con Roberta che era curiosa di conoscerlo e Totò si presentò con lo spartito sottobraccio, ci condusse in un appartamento lì vicino dove c’era un pianoforte e aprì la musica sul leggìo. Intanto Roberta, malgrado tutte le mie raccomandazioni, non riusciva a trattenere il riso perché Totò nelle movenze le rammentava gli sketch dei film, sicché faticai anch’io a restare serio. Cominciai a suonare ridendo sotto i baffi, ma presto mi resi conto che il pezzo non era un granché e non sapevo come dirlo con garbo. Infine mi risolsi: “Principe, devo essere proprio sincero? Questa canzone non è ‘Malafemmena’…”. Totò esclamò soltanto: “Oh perbacco!”. E ci restò malissimo. Ci rincontrammo per una premiazione dopo che aveva recitato nel film di Dino Risi “Operazione San Gennaro”, in cui i ladri del tesoro, per fare il colpo, aspettano che vada in onda il Festival della canzone napoletana che incollava tutti alla tv, ed entrano in azione proprio mentre Peppino di Capri canta “Ce vo’ tiempo”. Durante la cerimonia Totò, malgrado l’infelice precedente, mi regalava sorrisi di simpatia.

 

Ps: uscire da certe conversazioni è come uscire dai sogni, al termine ne cadono o ne restano frammenti. “Son diventato un sognatore / per sentirmi meno solo / e per non sapere più quanti anni ho”, dice una canzone di Peppino. Lui adesso aggiunge che “dai sogni può scaturire di tutto e certe volte sarebbe ideale continuarli da sveglio. Quando mi alzo però faccio l’errore di ravviarmi i capelli e si dice che così i sogni svaniscano. Non ne conosco il motivo ma ho sperimentato che è vero”. Perciò, meglio scriverne subito.

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