il foglio del weekend

Il mago del country d'Israele

Koby Oz ha cambiato il pop raccontando un paese che è sceso a patti con la propria identità mediorientale

Matti Friedman

Chi è il musicista israeliano più importante dell’ultima generazione?  Non intendo il più dotato o popolare, ma il più influente, senza il quale il sound del paese non sarebbe lo stesso. Il mio voto va a Kobi Oz – l’illusionista del mix-track, il cucchiaino di zucchero che aiuta a mandare giù la medicina, il tunisino di una città di marocchini che ha portato il sud a Tel Aviv e ha cambiato ciò che intendiamo quando diciamo pop israeliano.  Naturalmente, più di una persona è responsabile dell’ascesa del sound, un tempo disprezzato, noto come “Mizrahi” o “Eastern”, che è diventato l’equivalente spirituale di Israele del country americano e della musica occidentale, sebbene i due generi non suonino per niente allo stesso modo.  Ma dovendo scegliere un musicista che ha reso mainstream il sound Eastern, orientale, in Israele, direi Oz. 

 
Ascoltando il lavoro di Oz negli ultimi trent’anni, si ottiene il ritratto di un paese che cambia, costantemente in crisi ma anche con una vitalità irrefrenabile, un luogo che ha rinunciato a essere un altro e ha fatto i conti con se stesso.  Poiché Oz e la sua band sfondarono negli anni Novanta, l’era dei video musicali, è possibile vedere i momenti cruciali della loro ascesa su YouTube, come l’uscita di “In Newsprint” nel 1993. Nessuno dava due lire a questa canzone, che ha testi pungenti nei confronti degli israeliani – li descrive come persone distratte dalle battute, dal giornalismo e dall’autoillusione – e una melodia complicata che cambia bruscamente ritmo nel mezzo e si sposta in un territorio musicale esplicitamente marocchino. La canzone era diversa da qualsiasi cosa la gente avesse ascoltato prima. Non era immediatamente chiaro se la band stesse incanalando seriamente il suono nordafricano o se ne ridesse, come era comune a quei tempi, quando la cultura Mizrahi era ancora irrisa dai custodi del gusto popolare.

 
Il disco, il secondo della band, al tempo non andava bene  e l’entusiasmo della casa discografica stava scemando.  Come cantante, Oz era strano – piccolo e stravagante con una treccia, occhiali grossi, un sorriso accattivante ma per nulla amichevole, come se avesse in mente una bella battuta ma pensasse che tu non l’avresti capita.  La musica della sua band, diceva la casa discografica, era “troppo araba”.  Lui e la band misero insieme praticamente tutti i soldi che avevano, 600 dollari, e girarono  un video di fronte a un pubblico dal vivo, in un posto a Jaffa in cui di solito si esibivano cantanti greci.  La folla detestò subito sia la band sia la canzone – si vede chiaramente nel video.  Questi ragazzi erano marocchini o ashkenaziti?  Cos’era quello schifo?  Solo quando un famoso artista greco salì poi sul palco, il pubblico iniziò a ballare, sollevato dal fatto che Oz e i suoi amici se ne fossero andati.  Oz disse al cameraman di filmarlo e modificò la clip in modo che sembrasse che la gente stesse ballando sulla sua canzone.  Funzionò: il video andò in onda, “In Newsprint” divenne un classico e la band non si guardò mai più indietro. 

 
“L’umorismo è un incredibile strumento israeliano per essere accettati in società”, ha detto Oz quando ci siamo incontrati in un bar di Tel Aviv. Era entrato camminando lento con un cappello da sole leopardato sopra ai sui celebri occhiali e al suo caratteristico pizzetto.  Adesso Oz ha 51 anni, è uno dei più anziani della scena pop del paese, e tutti lo riconoscono per strada. “Se non vuoi essere il ragazzo che tutti ignorano”, dice, “è meglio essere quello di cui tutti ridono.  Se ridono di te abbastanza a lungo, diventi uno di loro. Inizi a ridere di te stesso e poi puoi ridere di loro”.
Questa osservazione ha le sue radici a Sderot, la città del sud dove Oz è nato nel 1969. Sderot è ora famosa per essere l’obiettivo preferito dei missili palestinesi lanciati dalla vicina Gaza: molte migliaia di razzi hanno colpito la città e un bambino è stato ucciso lì nell’ultimo round di combattimenti, in primavera. Ma quando Oz era un ragazzo negli anni ’70 e ’80, Sderot era solo un povero stagno i cui residenti erano per lo più proletariato nordafricano che lavorava nelle fabbriche gestite dai socialisti nei vicini kibbutz. Una città operaia con una ricca scena culturale ignorata dai più, con musicisti di talento senza accesso a radio o case discograficche, e senza la speranza di potersi avvicinare al mainstream – tutto questo sembra aver creato l’elettricità che ha messo l’underground di Sderot sulla mappa.  L’hard rock era forte a Sderot anni prima che lasciasse il segno a Tel Aviv.  La città ha prodotto parecchie  band importanti: alcune ce l’hanno fatta a emergere, la maggior parte si è sciolta prima che qualcuno fuori potesse notarla.

 
A Sderot c’era anche una seconda scena underground, abitata da intrattenitori che organizzavano feste e matrimoni con canzoni arabe e nomi d’arte come Sheikh Muijo e Filfel al Masri.  Erano artisti arrivati con la grande migrazione in Israele dal mondo arabo e facevano del loro meglio per tenere alto il morale delle persone in un paese meno accogliente del previsto.  Cantavano musica tradizionale e canzoni di protesta rivestite di un umorismo acido, che occasionalmente diventavano delle hit. Un buon esempio degli anni 50 è stato “Installments” di Filfel al Masri,  sulle persone che vengono convinte a  comprare ora e pagare dopo, o “Unemployment Office” di Jo Amar sul tentativo di un ragazzo marocchino di emergere da una burocrazia più favorevoli per chi arrivava dalla Polonia. Sderot era un posto piccolo, ma lì accadevano un sacco di cose.

 
Per Oz, la figura musicale chiave della città era (e rimane) il chitarrista Haim Uliel, figlio di Matatya, che era un impresario culturale e un membro delle Pantere nere, il gruppo Mizrahidi protesta anti establishment  degli anni ’60 e ’70.  Il giovane Uliel aveva iniziato con jeans attillati e capelli lunghi suonando i Black Sabbath, poi aveva fatto una brusca inversion tornando alla musica con cui è cresciuto nel bar di suo padre sulla via principale della città, Herzl Street.  Il bar ospitava artisti ebrei del Nord Africa e anche musicisti arabi che venivano dalla vicina Gaza, che all’epoca non era un ministato gestito da terroristi e circondato da recinzioni, ma solo un posto in fondo alla strada. La scena all’Herzl Street café era un po’ losca, uomini e donne malfamati, mi aveva raccontato Uliel quando l’avevo incontrato nella piccola casa accanto dove è cresciuto e dove vive ancora – un sessantacinquenne in pantaloncini e infradito con il divano in soggiorno occupato dalla custodia di una chitarra.  Ma erano quelle persone nei bassifondi che avevano finito per mantenere vivo l’antico sound. C’era una porta tra la casa e il bar e gli abitanti di questo demimonde a volte si aggiravano nella cucina di Haim.  Si svegliava e trovava i batteristi addormentati sul pavimento.

 
Uliel era, e rimane, un personaggio combattivo. Non ha il desiderio di essere accettato che ha Oz.  La band di Uliel, Sfatayim (labbra), ha conservato uno stile marocchino autentico,  suona  con strumenti occidentali ma fa pochi altri sforzi per catturare l’orecchio europeo. Uliel teneva in poco conto non solo la musica ashkenazita, ma anche quella considerata mizrahi: la disdegnava, pensava che fosse nulla di più di canzoni greche suonate da yemeniti che erano troppo desiderosi di compiacere il pubblico.  Credeva che se il mainstream non era interessato alla vera musica marocchina, il mainstream poteva andarsi a fare un giro. 

 
“A quei tempi c’era l’idea che la cosa importante fosse il testo ebraico, non la musica”, ha detto Uliel. “Pensavano che la musica fosse educazione, ma la musica non arriva per insegnarti: la musica vuole renderti triste, o felice, o farti ballare.  Se vuoi educare le persone, fallo a scuola”.

  
Quando Oz aveva 10 anni, Uliel ne aveva 20 e gestiva un festival musicale locale.  Portò Oz d esibirsi e poi, quando Oz aveva 15 anni, gli fece suonare la tastiera nella sua band. Il ragazzo, ricorda Uliel, era dedito alla musica fino all’ossessione. Oz, da parte sua, ricorda di essere stato selezionato principalmente “perché ero lì”.  Fu in questo periodo che Kobi Oz divenne Kobi Oz;  prima di adottare il nome d’arte, era Yaakov Uzan. 

   

Si esibirono nei matrimoni marocchini in tutto il paese e Oz ricorda quel periodo come una specie di glorioso campo di addestramento. “Da bambino, ho avuto un’incredibile scuola di beat e groove: era l’Africa, era il Marocco”, dice. “Era come suonare con James Brown”. 

  
Oz frequentava anche alcuni musicisti adolescenti dei kibbutz intorno a Sderot, il che era raro: non c’erano molti contatti tra i due mondi. Alcuni di loro decisero di formare una band che avrebbe cancellato quei confini, dandole il nome di una marca di correttori per macchine da scrivere, Tipp-Ex (il riferimento, che si perde nel nome inglese della band, Teapacks, non ha comunque senso per chi abbia meno di 40 anni.) Il ragazzo di Sderot sarebbe stato al comando, con i ragazzi dei kibbutz a sostenerlo.

  
Iniziarono a suonare nelle sale da pranzo del kibbutz, il tipo di concerto in cui dopo dovevi ripulire molto. A quel punto aveva comprato una batteria elettrica da uno dei due negozi in Israele che le vendeva, e un computer per le basi, ed era riuscito a convincere il liceo di Sderot a lasciarlo studiare musica elettronica. La scuola non aveva nessuno che potesse interrogarlo sull’argomento, quindi portarono il professionista che consideravano più vicino alla materia: un elettricista. Oz prese 10 su 10, il che gli sembrò fantastico fino a quando non arrivò il suo appuntamento con la leva e quel voto perfetto gli portò un impiego militare senza sbocchi: aggiustava i sistemi elettrici dei carri armati. Il chitarrista della band del Kibbutz Nir Am svanì nei Navy Commandos e non lo videro mai più, ma quando l’esercito ebbe finito con tutti loro, Gal Perelman del kibbutz Nahal Oz era ancora lì con il basso e Tamir Yemini del kibbutz Ruhama sui tamburi, e Ram Yosifov arrivò a Tel Aviv con una chitarra e un mandolino. Tutti e tre sono ancora nella band.

  
Ormai era la fine degli anni Ottanta, e c’erano alcuni dj dell’Army Radio che erano interessati a sound diversi. Alon Olearchik, celebre per aver suonato la chitarra con la leggendaria band comic-rock Kaveret (Beehive), era tornato da Manhattan, dove aveva suonato in un club,  e travolse le onde radio locali con una hit su  un nuovo  arrivato  nel quartiere.  Oz lo convinse a produrre l’album della band, e tutto cominciò.

  
Il loro  primo successo  riguardava un ciarlatano taumaturgo, il rabbino Joe Kapara, un tipo comune nel sud israeliano. L’idea era di cantare canzoni specifiche su un luogo specifico, come la musica country: non guidi un camion – guidi una Ford col pianale ribassato. Non canti di una donna, ma di Jolene. E non vieni da qualsiasi luogo, vieni da Luckenbach, Texas, o Muskogee, o Sderot. (“Quando ascolto musica country, voglio essere nel mio paese”, dice Oz). Quello che seguì fu una serie di istantanee popolari di un paese, Israele, che cambia: un’ode  alla vecchia e sporca stazione degli autobus di Tel Aviv, che era stata demolita a favore di una nuova stazione (che si era rivelata peggiore); una canzone sulle persone sedute nei bar e nelle jeep, che mettono a tacere tutto durante un’ondata di attentati suicidi; una divertente, ma non divertente “hora” sui mali della nuova prosperità di Israele. Il suono dei Teapacks è immediatamente riconoscibile e molto di ciò che è comune nella scena pop odierna può essere ricondotto a loro: non solo la normalizzazione dei ritmi nordafricani, ma l’ironica fisarmonica o l’utilizzo di versi hip-hop seguiti da un coro mizrahi, di cui Oz è stato pioniere con la canzone del 1993 “Monopoly Champion”.

 
Da allora, mentre molti musicisti israeliani si sono spostati verso generiche sonorità occidentali (quello che Oz chiama “post londonismo disconnesso”), il lato Mizrahi della scena musicale è diventato più sfacciatamente ebraico e israeliano. Questo è lo stile di Oz, come è illustrato in una delle sue canzoni più importanti – che non ha né scritto né composto, e che non ha attirato molta attenzione quando è uscita, né dopo. 

  Koby Oz ha cambiato il pop raccontando un paese che è sceso a patti con la propria identità mediorientale
Era una sera del giugno del 2001 e la band si esibiva con la regina del pop Mizrahi Sarit Hadad,  diventata famosa per aver cantato con i Teapacks qualche anno prima. Cominciarono ad arrivare notizie di un attentato suicida palestinese in una discoteca di Tel Aviv; 21 persone erano morte, per lo più adolescenti.  E’ il tipo di situazione che gli artisti israeliani devono affrontare. A maggio, per esempio, ero a un concerto all’aperto a Gerusalemme quando una raffica di razzi di Hamas ha colpito il centro di Israele: metà del pubblico si è alzata per rispondere alle chiamate di babysitter spaventate e il resto di noi si è girato sulle sedie di plastica bianca per guardare le piccole esplosioni rosse degli intercettatori di Iron Dome, nel cielo a ovest.  I musicisti continuavano a suonare. Cos’altro avrebbero potuto fare? 

 
Oz non voleva annullare il concerto, ma la situazione doveva essere affrontata, quindi decise di aprirlo con l’inno nazionale, “Hatikva”. Perché?, gli ho chiesto. “Avevo sempre volutocantare ‘Hatikva’”, ha detto. Lui e Hadad avevano provato una versione che incorporava lo stile che Oz ha sentito quando suo nonno tunisino gli cantava l’inno. Era simile a quello che si può ascoltare in una bella registrazione da Tunisi nel 1932, che suggerisce non solo un diverso modo di cantare l’inno, ma un diverso sionismo. 

 
Senza aggiungere una parola, la versione di Oz sottolineò un fatto politico: l’inno era stato scritto da un europeo dell’est, ma la canzone, e il paese, appartenevano a persone di Tunisi tanto quanto a chiunque altro.

 
Il ministro dell’Istruzione, Limor Livnat del Likud, era tra la folla quella sera e, dopo lo spettacolo, chiese loro di registrare la canzone per promuoverla nelle scuole del paese. Oz e Hadad affittarono uno studio e le inviarono la registrazione, ma non ricevettero alcuna risposta; pare che una commissione di esperti convocata al ministero dell’Istruzione non si fosse divertita affatto ascoltando quella rivisitazione. “Hatikva” di Oz è la mia versione preferita della canzone, quella di cui Israele ha bisogno ora, mentre la nostra società si sfilaccia lungo linee etniche e politiche e reclama nuove idee e suoni. I funzionari storsero il naso, Oz lo pubblicò lo stesso, includendolo come bonus track in una compilation di greatest hits nel 2003. Avrebbe trovato le orecchie giuste.

   
Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Tablet Magazine, tabletmag.com, che ci ha gentilmente concesso i diritti. 

(traduzione di Priscilla Ruggiero)

Di più su questi argomenti: