Young e Dylan, il passato del dolore e il presente dell'America. In un solo giorno

Stefano Pistolini

Un repechage di lusso del canadese e un nuovo capolavoro di Bob

Roma. Credo che i nostri grandi cantautori classici, quelli che adesso siamo abituati a considerare “stanchi” per definizione, dovrebbero guardare con interesse e curiosità a ciò che accade in questi giorni sul mercato discografico d’oltreoceano, reso più surreale dal contesto della perenne emergenza. Di là dell’Atlantico, infatti, i loro stagionatissimi colleghi non sembrano dare alcuna rilevanza all’anagrafe e alla sterminata distesa produttiva delle loro carriere. Al contrario, facendo sberleffi al Covid e alle programmazioni di vendita, due dei più venerabili se ne escono con altrettanti album nuovi di zecca, destinati a far risuonare, almeno per i seguaci, la maledetta estate del 2020 come quella altrettanto fatale del ’69, o una di quelle turbolente nei Settanta.

  

I campioni in questione sono Bob Dylan, 79 primavere, e Neil Young, 74. Le rispettive nuove uscite si intitolano “Rough and Rowdy Ways” e “Homegrown”. Due lavori di qualità elevatissima, dal punto di vista musicale, ma ancora di più artistico ed intellettuale. Ma qui le similitudini finiscono, perché i due album partono da concezioni diversissime, seguendo visioni distanti quanto lo sono i caratteri dei due personaggi. Eppure ad accomunarli ancor di più ci sarebbe l’attenzione che tanto Neil quanto Bob dedicano all’enorme repertorio di materiale inedito, raro, sconosciuto e ripensato che amministrano gelosamente, rilasciandone di tanto in tanto un segmento.

 

  

Però l’idea di partenza di Young il canadese, in quest’occasione, è stata quella di teatralizzare un clamoroso ripensamento. Le registrazioni di “Homegrown” risalgono infatti al dicembre ’74, mentre si concludeva la sua burrascosa storia d’amore con Carrie Snodgress, la brava attrice madre di suo figlio Zeke. Vuole la leggenda che Neil radunò in un bungalow dello Chateau Marmont di L.A. (lo stesso nel quale sette anni dopo morirà Belushi – e se siete voyeur e andrete in California, risparmiate i soldi per un paio di notti nella tana del mito…) i ragazzi dei Crazy Horse, la sua band, e vari amici, tra i quali Rick Danko e Richard Manuel della Band. Voleva condividere con loro una decisione: con quale album tornare su quel mercato che l’aveva visto trionfare con “Harvest”? Con la tormentata cronaca elettroacustica della fine d’un amore, o con l’altro disco che nel frattempo aveva registrato, “Tonight’s the Night”, nel quale elaborava due lutti altrettanto penosi, causati dall’imperversare dell’eroina a cui nemmeno Young era estraneo – il suo chitarrista Danny Whitten e il fedele roadie-amico Bruce Berry? I fan sanno chi vinse, ma 45 anni dopo ecco riaffiorare il ripudiato e le sensazioni che provoca sono notevoli.

 

“Homegrown” non è un’opera che se fosse uscita a suo tempo avrebbe modificato la traiettoria artistica di Young, ma la portanza, l’ispirazione e l’energia che è ancora capace di rilasciare ci convincono ancor meglio che quest’uomo per un certo numero di anni incarnò, come nessun’altro, l’idea di contaminazione – al limite del misticismo – tra religioni distanti come il rock dionisiaco, la convinzione folk e l’appartenenza country.

  

   

Ma ecco che il discorso si fa completamente diverso dedicandosi ad ascoltare la molto annunciata nuova proposta di Bob Dylan. Il vecchietto qui non ha nessuna voglia di rivangare il passato. Le premesse dei tempi del lockdown, “Murder Most Foul” e “I Contain Multitudes”, già ci avevano assai ben disposto quanto alla qualità dell’attuale momento dylaniano, ma “R&RW” è un ruggito perfino inatteso da un uomo, prima che da un musicista, giunto a questo punto della carriera. La prima parola che viene in mente, ascoltando i taglienti roundabout di “My Own Version of You” è “focalizzazione”. Da tutti i punti di vista – musicale, vocale, lirico – Dylan pare avere tutto chiaro: dove vuole andare, come, traversando quali atmosfere, muovendo quali spettri e quali allucinazioni, concedendoci quali ingannevoli parabole. L’album suona, ricco e pericoloso, tentatore e torbido, provocatorio e importante. Bob viaggia al centro del Mississippi, mirabile, eterno e irraggiungibile, come il reverendo de “La morte corre sul fiume”, gorgheggia rhythm&blues e racconta storie interminabili, contenendo tutta l’America, dipingendola per allegorie, immerso in un suono che rotola e scivola, liquido come non ne produceva da tempo. Ma su questo capolavoro torneremo con la calma necessaria. Quel che preme sottolineare ora è questa capacità di rimirare il futuro e poi di andarselo a prendere, riconfigurandolo a beneficio del suo pubblico e restituendogli quella decenza che il presente americano sembra avere perduto. Costringendoci a un profondo inchino di gratitudine. Mentre eseguiamo il quale lanciamo una strizzata d’occhio all’altro vecchio capellone, quello che preferisce guardare indietro, ma che non perde per un istante il passo della nobiltà.

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