Il Rondò Veneziano, un ensemble che si ispira alla musica barocca, ideato e diretto da Gian Piero Reverberi (Wikipedia)

L'arte di arrangiare

Salvo Toscano

Lucio Battisti, e poi De André, Dalla, Vanoni. Gian Piero Reverberi, che ha scritto gli archi di una serie infinita di capolavori, si racconta

Sono passati cinquant’anni dal giorno in cui Lucio Battisti gli consegnò quel “nastrino”, come lo chiama lui. Ma Gian Piero Reverberi lo ricorda bene quel giorno. “Mi diede un nastrino dove lui cantava e suonava la chitarra. In quel periodo io ero senza appartamento a Milano perché stavo cambiando casa. Non avevo un posto dove lavorare e andai da un amico editore che mi diede una saletta, senza strumenti”. Su quel “nastrino”, Reverberi ascoltò la demo di “Emozioni”, il gioiello che Battisti e Mogol avevano creato dopo la loro traversata da Milano a Roma a cavallo. L’arrangiatore, che con il cantautore di Poggio Bustone aveva cominciato a collaborare da poco, lo fece suonare “su un registratorino”, racconta lui, in una storia in cui tutto sembra al diminutivo, e che finisce con un capolavoro gigantesco. “Mi misi col pentagramma davanti e immaginai quello che mi sarebbe piaciuto sentire attorno a quella voce e a quella chitarra”, racconta Reverberi, ricordando quel pomeriggio milanese.

 

Genovese, classe 1939, Gian Piero Reverberi è uno dei più grandi arrangiatori della storia della musica italiana. Ha scritto lui gli archi di una serie infinita di capolavori, non solo quelli pubblicati da Lucio Battisti dal 1970 al 1973, all’apice della sua creatività. Reverberi ha lavorato con De André, con Dalla, con Tenco, Gino Paoli, Ornella Vanoni. Dietro gioielli come “L’anno che verrà”, “Il mio canto libero”, “Bocca di rosa”, “Senza fine”, “Pensieri e parole” c’è il suo zampino, qualche volta pure da autore. Un autentico gigante, capace col suo tocco sapiente di mettere le ali ai ritornelli, farli volare altissimi sostenuti dai suoi archi. Qualcosa che riusciva alla perfezione con Battisti, autore che del ritornello arioso ed esplosivo era il maestro. A un certo punto, la canzone volava, come ne “I giardini di marzo”, all’irrompere del celeberrimo “Che anno è che giorno è”, o in “Io vorrei non vorrei ma se vuoi”, dalla famosa domanda su “come può uno scoglio arginare il mare?” in poi, quando i violini sostengono quella linea melodica che vorticosamente sale e scende tra “le discese ardite e le risalite”. E lì, ad accompagnare quelle melodie battistiane maestose, che volavano altissime, c’erano sempre gli archi di Reverberi.

Per “Emozioni”, però, il lavoro fu diverso. La canzone, così particolare, lo richiedeva. “Era un’armonia astratta, il ritmo non ne parliamo, la melodia anche. Non c’era una linea, io dovevo solo riempire i vuoti , i silenzi. Ho ascoltato i silenzi, non le note”. Ascoltò bene. Scrisse solo la parte dei violini Reverberi. Lo schema della chitarra era di Lucio, ricorda, “e tutta la parte ritmica non l’avevo scritta perché sapevo che sarebbero venuti dei musicisti sulla cui creatività potevo contare”. Musicisti di razza, peraltro. “L’orchestra era in diretta, Lucio era in diretta, alle percussioni c’era Franz Di Cioccio e alla chitarra Francone Mussida. Si creò una forma di sinergia simbiotica”. E felicissima. “Sì, ma proprio perché non è stata fatta artificialmente, tutto nacque in un pomeriggio”.

Il primo disco con Battisti, Reverberi l’aveva arrangiato l’anno prima. Era “Non è Francesca”, che divenne una pietra miliare della produzione battistiana. Un arrangiamento alla “Yesterday”, tutto chitarra e archi, fino alla lunga coda, che invece si avventurava sui sentieri del rock sperimentale, con tanto di nastri suonati al contrario, altra strada battuta pochi anni prima dai Beatles. Correva l’anno 1969, Reverberi era già attivo da una decina d’anni. Il suo esordio da arrangiatore era arrivato con “La Gatta” di Gino Paoli. “Ero giovanissimo, mio fratello lavorava alla Ricordi, aveva portato su il Paoli che era alla prima esperienza. La Ricordi non voleva mettere soldi per esperimenti e dovetti farlo con tre musicisti più io. Al contrabbasso c’era un mio compagno di conservatorio. Era il mio primo disco, il primo di Paoli, il primo da contrabbassista di Crovetto”.

Nei primissimi Sessanta, la Ricordi è parca nel concedergli strumenti. “Con Tenco e con Paoli, riuscii ad arrivare fino a sei strumenti”, ricorda. La svolta arriva con “Se mi vuoi lasciare”: “Mi hanno dato carta bianca, il primo disco con un’orchestra decente, dopo il primo milione di dischi”. La musica di quella hit di Michele era sua, autore e non solo arrangiatore. Nei Sessanta lavora molto Reverberi, alla fine del decennio incrocia Battisti, che fino ad allora aveva collaborato soprattutto con Detto Mariano, che aveva arrangiato, egregiamente, hit come “Acqua azzurra acqua chiara” e “Mi ritorni in mente”, e che adesso si era fatto la sua etichetta. Com’era Battisti? “Le leggende metropolitane non le conosco. A me ha sempre dato fiducia, ci intendevamo”. Dicono che sul lavoro fosse pignolo. “No, il pignolo ero io. Non lasciavo passare niente che non fosse quello che per me era giusto. Forse per questo con me era meno pignolo”.

Dal 1971 al 1973 Battisti e Mogol sfornano una valanga di canzoni destinate a rimanere evergreen. Reverberi le arrangia tutte. Come “La canzone del sole”, con quella coda in cui gli archi sanno di luce e di gioia in quella grande allegoria dell’amore che il “sole” rappresenta; come “I giardini di marzo” e “La luce dell’Est”, con quei ritornelli che volano fino al cielo dopo le strofe raccolte e introspettive: uno schema vincente. “Lo schema della canzone lo faceva Lucio, non avevo voce in capitolo. Però che io abbia sottolineato e quindi valorizzato certi aspetti che potevano passare inosservati, forse...”, ammette con modestia il maestro. E se gli si fa notare che quei violini contribuivano a far volare la canzone, lui risponde così: “Sì, un conto è farlo volare un brano, un altro è dargli il passo dell’oca. E le assicuro che coi violini si possono fare delle cose truci”.

Il sodalizio con Fabrizio De André, con cui Reverberi è in diversi casi anche coautore, è lunghissimo e attraversa tutti i Sessanta con incursioni nei Settanta. Tra i successi di Faber porta la sua firma “Bocca di Rosa”. Da co-autore Reverberi realizza con il cantautore genovese tre album. “Nel giro di uno-due anni, feci il primo album concept rock, ‘Senza orario senza bandiera’ dei New Trolls, il primo prog, ‘Collage’ de Le Orme, e il primo di un cantautore, ‘Tutti morimmo a stento’ con De André”. Com’era lavorare con lui? “Bellissimo, una pacchia, perché io lavoravo di giorno, lui di notte, quindi non ci incontravamo mai”, ride il maestro. “A parte gli scherzi, con persone intelligenti e brave non ci sono mai problemi a lavorare”.

E Reverberi in quel periodo a cavallo tra Sessanta e Settanta, una golden age della musica italiana, lavora parecchio. “Facevo un long playing al mese”, ricorda. Arrangia anche dei grandi successi di Mina: “Amor mio”, “Io e te da soli”. Erano i pezzi scritti apposta per la cantante da Battisti e Mogol. “Sì, Lucio mi dava i pezzi, io scrivevo gli arrangiamenti , facevamo le basi orchestrali poi lui finiva le registrazioni con Mina. Io lei non l’ho mai vista”.

E’ nata un’amicizia con Battisti in quegli anni? “No. Sono molto drastico. Non ho mai mischiato l’amicizia con la professione. Per me l’amicizia è quella dove non c’è nessun secondo fine, nessun secondo interesse. Quando non lavoravo tornavo a Genova, avevo lì i miei amici”.

Quale canzone di quegli anni riascolta con più piacere Gian Piero Reverberi? “Io non riascolto mai niente, a volte sento per radio delle cose che ho fatto io e dimentico di averle fatte. Non ho mai vissuto proiettato verso il passato. Per me quello che è fatto è fatto. Mi può succedere che capiti per caso di riascoltare cose mie. Ma ci sono dei pezzi che ho dimenticato completamente”. Sì, pure quelli importanti, come “Anna e Marco”, gioiello di Dalla. “Anna ricordo quella di Battisti. Con i titoli ci acchiappo molto poco. Ho fatto gli archi su diversi pezzi di Dalla fra cui ‘Caro amico ti scrivo’ (L’anno che verrà, ndr), sarà fra quelli”.

Tante canzoni, troppe da ricordare. Tutte però in un modo o nell’altro dovevano convincerlo. “Per principio se una cosa non mi piaceva la rifiutavo. Sa quanti contatti ho mandato all’aria?”. Di bravi bravi che non hanno avuto il riconoscimento che meritavano? “Di gente brava ne ho conosciuta, i migliori hanno avuto successo. Chi ha talento viene fuori. Però, sì, capita che qualcuno non ne abbia come merita. Ricordo gli Oz Master Magnus, erano un gruppo, li produssi io negli anni Settanta, erano bravi”.

Alla fine sei Settanta arrangia tra gli altri Umberto Balsamo, “Balla”, quella che scioglie le trecce ai cavalli, ancora oggi si sente in qualche serata danzante. Fu divertente? “Balsamo è meraviglioso, ma divertente non direi”. No, il disco era divertente, la mettono ancora in discoteca. “Sì, era stato divertente lavorare a Londra. Era un piacere lavorare lì”.

Arrangia anche “Io che non vivo” di Pino Donaggio, che diventa una hit mondiale, incisa in inglese anche da Elvis. Poi, Donaggio diventa compositore di colonne sonore, prediletto tra gli altri da Brian De Palma. “Lui mi propose anche di lavorare insieme, ma io gli dissi di no perché le colonne sonore non mi interessavano. Aveva talento e melodia, ma, con tutto il rispetto per lui, come musicisti di colonne sonore c’è tanta gente bravissima in giro”.

Con gli Ottanta, per Reverberi arriva quasi per caso una nuova avventura. Che dura fino a oggi. E che si è tradotta in una quantità infinita di dischi e di concerti: il Rondò Veneziano. Quando gli si chiede che cosa ha significato Rondò Veneziano per lui, il maestro con una bella risata e un accento genovese più marcato risponde che “ha significato un sacco di soldi”. “E’ stata una cosa nata a tavolino. Eravamo davanti a una pizza, forse durante la lavorazione di un disco dei Ricchi e poveri. Freddy Naggiar (il fondatore della Baby records, ndr) mi fa: ‘Un Branduardi strumentale si può fare?’. Io secco: ‘No’. Però quelle cose alla Branduardi avevano funzionato. E insomma, dopo un po’ gli dico: ‘Senti, ci penso’. Ci pensai. E mi dissi che tutto sommato era il barocco, che partendo dall’Italia aveva invaso l’Europa. Tutti facevano la musica italiana, o per lo meno dei derivati del barocco italiano”. E così nasce il Rondò Veneziano. E il primo album. “Ci venne l’idea dei musicisti in costume, con le parrucche. Naggiar era amico di Berlusconi che stava aprendo Canale 5 e gli serviva una musica per il Biscione, Freddy gli ha proposto quello e gli è piaciuto. Per un anno tutti sentivano questa musica quando si interrompevano le trasmissioni di Canale 5, ma nessuno sapeva cos’era, il disco non era ancora uscito”.

Ma il successo è durato. E tanto. “Naturalmente i colleghi, qualcuno invidioso, dicevano è una botta di culo e vedrai che si sgonfia. Ne abbiamo fatti 25 di dischi. L’ultimo concerto prima del Covid l’abbiamo fatto proprio noi, a Ginevra e a Berna, il 7 e l’8 marzo. Facciamo concerti dopo 40 anni. E questo mi diverte, il pubblico è sempre entusiasta”. Perché nella musica, oggi come cinquant’anni fa, è sempre e solo una questione di… emozioni.

“Mi misi col pentagramma davanti e immaginai quello che mi sarebbe piaciuto sentire attorno a quella voce e a quella chitarra”

“Non riascolto mai niente, a volte sento per radio cose che ho fatto e dimentico di averle fatte”. Le colonne sonore e il Rondò Veneziano

Il suo esordio da arrangiatore era arrivato con “La gatta” di Gino Paoli. “Ero giovanissimo, e mio fratello lavorava alla Ricordi”

Tra i successi di Faber porta la sua firma “Bocca di rosa”. Da coautore realizza con il cantautore genovese ben tre album

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