Quarant'anni di musica italiana

Da De Gregori a Mahmood, le canzoni che ci dicono chi siamo

Stefano Pistolini

L’impegno degli anni 70 e l’apogeo della musica d’autore, indispensabile e rappresentativa. Poi il disimpegno dei 90 e la dissoluzione di un’industria. Tutto finito? Niente affatto: spuntano tante facce nuove, e ricomincia la festa

Nel 1978 Francesco De Gregori pubblica un album che porta semplicemente il suo cognome e un’affettuosa decana della musica popolare italiana come Giovanna Marini, sull’entusiasmo per ciò che ha appena ascoltato (nell’album ci sono “Generale”, “Natale”, “L’impiccato” e altre magnificenze), dichiara: “Mi ha colpito il valore etico di queste canzoni. Io questi testi li farei studiare alle scuole elementari. Danno il senso dei valori della vita”. Fotografiamo l’istante: è l’apogeo della musica italiana d’autore, ormai più che legittimata, in certi casi santificata e visceralmente condivisa da almeno un paio di generazioni avviluppatesi attorno a questi ritornelli, discutendo senza requie su una voce e sull’altra, su una poetica piuttosto che su quella del rivale. La nostra musica – scovato miracolosamente il modo di convivere con ciò che di musicale arriva da oltre confine, dalla Londra modaiola e dall’America ancora per lo più sognata – sta aprendo un solco profondo nella psiche di un pubblico e del suo tempo. La musica è, e basta. Indispensabile. Importantissima. Soprattutto, rappresentativa. Racconta come si sta e cosa manca, per cosa si lotta e quanto si soffre, l’antifascismo e il pacifismo, le contraddizioni del capitalismo, il conformismo, perfino l’eroismo operaio. I cantautori orgogliosamente “impegnati”, parlano a un pubblico omologo, politicamente schierato, che identifica cultura e intrattenimento. Non disdegnano di descrivere appassionati amori pomeridiani, ma come parentesi in esistenze che trovano dignità nella partecipazione, nel prendere parte. La sintesi sono le canzoni del gruppo ristretto di cantautori della “seconda onda” – dove con Francesco ci sono Dalla, Guccini e Venditti, Fossati, Conte e Bennato, mentre a distanza, e con le stimmate di un imperdonabile, decadente eccesso di commercialità, restano Battisti, Baglioni e Cocciante, e, ancor più lontano, chiuso in un acre apartheid, Renato Zero, beloved Renatino. Sono loro che hanno raccolto il testimone da chi ha inaugurato il fenomeno: i pazzi genovesi De André, Paoli, Tenco, Lauzi, Bindi e i milanesi, Jannacci e Gaber e con loro Endrigo, tutti geniali sebbene, uno per l’altro, predisposti a essere più degagé che engagé, a perdersi tra romanticismi innamorati della poesia, delle pose, della filosofia e dell’assurdo, con rivoli di militanza un po’ sparuti.

 


Foto LaPresse


 

Alla fine dei Sessanta, invece, i tempi maturano perché impegno e musica possano coincidere. Ci vuole visione e ci vuole melodia, serve la voce e i versi devono essere memorabili. E’ così che alcune canzoni dei giovani autori italiani acquistano una statura inedita, prima mai neppure vagheggiata, e parimenti imbarcano impensabili responsabilità. Non è un caso – al più è una pagina nera – che nel ‘76 De Gregori finisca nel pasticcio del Palalido, processato vigliaccamente per il reato d’avere successo da uno scorbutico tribunale intitolatosi “proletario”, quando il proletariato, allora come adesso, era altrove, sia nelle sue preoccupazioni che nella musica. Eppure in quel drammatico momento, che avrebbe ferito Francesco e sgomentato tanti osservatori troppo puri per capire il verso che prendevano le cose, perfino l’equivoco di quel processo-fantoccio assume un senso, nel delirio di significati ormai impigliati alla nostra musica d’autore. La Marini reclamava antologie letterarie, gli estremisti schiumavano livore contro questi imprevedibili leadership culturali e il pubblico, quello impegnato, quello che faceva opinione, ascoltava, dibatteva e ricantava. Era l’epilogo di un’escalation che aveva sovvertito le regole della musica italiana, dove non era più questione di melodie sanremesi, rime baciate e divi da rotocalco, con Mina ormai rinchiusa nel sabato sera tv e Celentano a improvvisare parodie dell’imminente rivoluzione. Nell’Italia in assetto da corteo, le canzoni erano versi di un vangelo contemporaneo, mandate a memoria, consumate nella ripetizione, venerate per la loro capacità di rappresentazione, in un’osmosi senza precedenti. E anche senza eredi, sostiene oggi la vulgata di chi c’era. Perché era quello il momento magico. Una dozzina d’anni di bellissime canzoni e poi sono il memento, la malinconia e una certa distrazione. La musica italiana non sarebbe più stata la stessa, mai più così importante. E giù il sipario.

 

Però restiamo ancora un attimo sulle canzoni. Cerchiamo un esempio, una parte per il tutto, magari non il caso più scontato (insomma, lasciamo stare “La locomotiva” o “La canzone del Maggio”). Spostiamoci poco prima, nel ‘74: De Gregori pubblica il cosiddetto album “della pecora”, per via dell’immagine di copertina. Altro lavoro memorabile, altre canzoni perenni, altro mutuo scambio di significati/simboli tra l’artista e il pubblico, nella continua eucarestia che contraddistingue quel decennio di consumi musicali. L’ascolto del disco ripropone l’interrogativo: perché le canzoni italiane di quel momento storico erano così importanti, così compenetrate non solo nell’immaginario del loro pubblico, ma perfino nelle loro vite? Com’è che ai cantautori era riuscito l’en plein di trasformarsi in interpreti d’una cultura, che peraltro erano variamente attrezzati a rappresentare? Prendiamo una canzone di quel disco, la seconda in scaletta, dopo la sontuosa apertura di “Niente da Capire”. Si chiama “Cercando un altro Egitto”. Le parole: “Era mattino presto, e mi chiamano alla finestra, mi dicono ‘Francesco ti vogliono ammazzare’. Io domando ‘Chi?’, loro fanno ‘Cosa?’. Insomma prendo tutto, e come San Giuseppe mi trovo a rotolare per le scale, cercando un altro Egitto. Di fuori tutto calmo, la strada era deserta, mi dico ‘meno male, è tutto uno scherzetto’.

 

 

Sollevo gli occhi al cielo e vedo sopra un tetto, mia madre inginocchiata in equilibrio su un camino, la strada adesso è piena di persone. Mia madre è qui vicino”. L’esecuzione è pulita e dylaniana, non ha imboccato quella conversione swing che caratterizzerà le sue rivisitazioni “live”. E’ il resoconto di un sogno che traversa un’anima inquieta, con riflessi di paranoie e ansia diffusa, i celerini coi manganelli e la strana metafora delle camere a gas che diventano “gelaterie di lampone”. Nel complesso, una stravaganza poetica in forma di ballata, cantata con tono casuale e sbrigativo, con la restia approssimazione con cui si confida a un amico l’inconcepibile sequenza d’un incubo fatto la notte prima. Eppure anche una materia così personale, bizzarra e atipica, in quel particolare momento assumerà una dimensione collettiva, magnetizzando affezione, facendosi luogo comune. D’altronde, la sottile isteria psichedelica che vena la canzone, è un segnale di riconoscimento nel popolo degli inquieti, che studiano per cambiare un mondo che poi non cambierà. In compenso, cambieranno loro. Ma il tempo, lo spazio e gli eventi non gli impediranno di portarsi sempre al seguito il bagaglio di quelle canzoni. Saranno il distintivo di un’appartenenza, magari sopita. Il meccanismo autoreferenziale di memoria di ciò che si era e di quanto ci si è allontanati dal progetto originale.

 


Il mondo con meno illusioni prima di Jovanotti e il mondo perduto ma pacificato, “post” tutto. La formula funziona ancora: parole e musica per dire cosa senti e cosa vuoi


 

Poi, dicevamo, tutto si è affievolito. I maestri cantautori italiani sono invecchiati, svaniti, ritirati, oppure procedono, convivendo coi dubbi – come noi tutti, del resto. La musica ha preso un’altra piega. Una lunga fase di distacco morbido, a grandi linee coincidente con gli anni Novanta, durante la quale si è disimpegnata, per volontà o per forza, dai compiti di rappresentatività e responsabilità, ricoperti con ardore negli anni caldi. L’artista-simbolo di questa fase di mezzo è Jovanotti. Lui porta con sé acume, ironia e coolness, incarna il momento della perdita di concentrazione, la trasformazione del giovane italiano da guerrigliero immaginario, intriso d’impeto e di letture, in personaggio più vago, incostante, distratto, meno memorabile, ma a sua volta capace di slanci, meno prevedibili, più inattesi. La realtà attorno, per come si presenta e per gli ostacoli che ci mette di fronte, è una presenza ben chiara nella musica di Lorenzo, filtrata da un idealismo individuale, fatta convivere con desideri e bisogni. Noi siamo ciò che riusciamo a essere e, comunque, è più importante essere se stessi, con sincerità, che raccontarci illusioni. Solo così miglioreremo e faremo i conti con le nostre debolezze. Adesso cercando conforto, prima di tutto, nell’amore. Guardandoci allo specchio, sentendoci decenti. Trovando buoni motivi per stare al mondo. Vivendo rari istanti d’estasi. Attimi d’esaltazione e sogni, per lo più irrealizzati. La vita trascorre. Jovanotti la canta, mentre finisce il millennio e gli fanno eco Vasco, Carboni e poi Cremonini. E’ amato, condiviso, mandato a memoria e tenuto in serbo. Ma è già tutto diverso. Il suo mondo, e quello di coloro che crescono ascoltando le sue canzoni, è un mondo con meno illusioni di prima e dove, nonostante tutto, torto e ragione convivono: “Parlare in una macchina davanti a un portone e alle quattro e mezzo fare colazione coi cornetti caldi e il caffelatte e quando sorge il sole dire buonanotte. E leggere il giornale prima di tutti, sapere in anteprima tutti i fatti belli e brutti. Di notte le parole scorrono più lente, però è molto più facile parlare con la gente, conoscere le storie, ognuna originale, sapere che nel mondo nessuno è normale”. (“La gente della notte”, 1990). Le cose si modificano, e anche le circostanze, e soprattutto le temperature emotive, le atmosfere. Ormai è anacronistico affidarsi a delle canzoni, come ripostigli della propria emotività e del reciproco riconoscimento. Evocano un’ingenuità già consumata, per quanto risalente a solo poco tempo prima e all’aver equivocato le visioni d’una protratta fantasia adolescenziale, con gli spigoli d’un mondo governato da logiche aspre.

 

 

C’è una parolina, bella e ambigua, che qui tocca estrarre dal cassetto: Ispirazione. Anzi: i gradi dell’ispirazione. Mentre tramonta un millennio e ne comincia un altro, si delinea una tesi che, in trasparenza, contiene già i termini della contrapposizione e del giudizio. E mentre avanza l’età per i vecchi maestri della nostra canzone seria, l’irripetibilità di un certo tempo appare lampante. Gli eventi che formarono chi sarebbe diventato adulto nel passaggio italiano tra il ‘68 e gli anni 80, sono stati il concime intellettuale indispensabile a far sì che la musica, raccogliendo l’invito attraverso talenti smaglianti, allineasse espressione e ispirazione, creando un canzoniere su cui, trent’anni dopo, continuiamo a vivere di rendita. Consumato l’incantesimo esistenziale, gli equilibri si sono rotti e altre vene espressive hanno preso il sopravvento. Sono successe cose epocali e chi cresceva doveva imparare a fare i conti con mondi diversi da quelli contenuti in un long playing. Non che la musica avesse smesso di suonare. Semplicemente cominciava a contare meno, si ricollocava, dopo essere stata eletta a gergo primario dai baby boomers alle prese con la loro liberazione. Il che produce, nel giro di pochi anni, una cristallizzazione delle gerarchie: quella secondo cui ancora oggi si celebra un Giorgio Gaber in odore di santità, o si parla di onesti artigiani come Rino Gaetano e Ivan Graziani con la solennità riservata ai Grandi Scomparsi. Una sistematizzazione, una storiografia ufficiale della nostra canzone, un esercizio provinciale. A cui seguirà il grande freddo, con poche eccezioni. Daniele Silvestri per citarne una, che pare sempre arrivato in ritardo nella sua arte, condannato a solitaria, celibe genialità. Comunque, per qualche anno, mentre nei dintorni si odono vagiti strani – la nascita dei talent show televisivi, o il tardivo affrancarsi dal rap italiano dall’imitazione dei modelli anglosassoni – l’onda della canzone italiana è piatta, condannata a nostalgia, avviata a conclamata sottomissione nei confronti del passato. La dittatura degli editorialisti, l’agonia della stampa specializzata, il gusto della celebrazione che pervade il boom del web, contribuiscono al fenomeno. Ma soprattutto è la rovinosa caduta dell’impero delle case discografiche, la dissoluzione di un’industria per come l’avevamo conosciuta e per come aveva prosperato (in chiave nazionale anche grazie all’affidabilità di questa produzione) a determinare un lungo iato silente. La sensazione, è che fare i cantautori, ammesso che la denominazione abbia ancora senso, una volta celebrate le esequie dell’album come formato espressivo, non sia più il mestiere più figo del mondo. C’è dell’altro, che ha l’aria d’appartenere alla gioventù che avanza. Ciò non toglie che, attraverso gli impianti alta fedeltà delle case di famiglia o dalle autoradio, i maestri di una volta siano ancora in circolo, proiettati in uno status speciale, al di sopra del dibattito, esentati dalle imperfezioni. Non c’è più discussione – provate a ripensarci. Diventano tutti meravigliosi, parola degli addetti ai lavori: Lucio e Lucio, Francesco e Francesco, Fabrizio e Antonello, Edoardo, Pino, Ivano, Paolo, Luigi… Fortunato chi li ha vissuti in tempo reale. Per gli altri, ci sono solo Spotify e YouTube a offrirne una pallida impressione. Ecco come suonava la canzone italiana che sapeva rispecchiare la nostra vita, i nostri bisogni, i nostri ideali.

 

Piano le cose andavano avanti, intanto, si riconfiguravano. Ossessionati dalla necessità di auto-analizzarsi, di chiedersi senza requie “Come stiamo? Come sto?”, gli adulti avevano chiuso i battenti sull’argomento: se per gli anglosassoni il rock è morto, qui si afferma che la nostra canzone ha fatto il proprio tempo e che i ragazzini di oggi non fanno che rincretinirsi sui social e bla, bla, bla, bla. Però mica era vero che non stava succedendo niente. Lo scrivere canzoni in cameretta, con una chitarra acustica e un laptop al posto del registratore a cassette, non era diventata un’attività desueta. Certo, era meno ganzo del montare su un palco vestendo i panni del bardo, e non si poteva rivaleggiare coi cantanti che avevano impunemente verseggiato d’amore & rivoluzione. Si poteva azzardare una cosa del genere adesso, senza passare per matti? Ma attorno era mutato tutto, proprio tutto, se si pensa a come viene su adesso un teenager: l’educazione civica e sociale, le regole dell’attrazione e dell’aggregazione, i modi di conoscersi e tutti i linguaggi possibili. Un altro mondo. Contemporaneo. Difficile. Complicato. Nel quale muoversi con prudenza, o con un coraggio incosciente. Sono questi nostri anni. Chi ne ha vissuti altri, può confrontarli, e stabilire quanto siano diversi. Fatto sta che, in questo balbuziente presente italiano, nuove canzoni hanno cominciato a sbocciare. Sottotraccia, ai margini, perché se solo provavi a iscriverti a un talent, invariabilmente t’imponevano di rifare i soliti classici, riproponendoli con ossequiosa sottomissione. Come che sia, la formula non ha smesso di funzionare: parole e musica per dire cosa senti, cosa vuoi, come vanno le cose con lei/lui. La storia consueta: rappresentarsi. Liberandosi dalle soggezioni, usando la lingua parlata, che magari sarà meno forbita, informata e vasta del vocabolario di fine Novecento, ma che importanza ha? Adesso è così, si è generata come effetto delle relazioni, dei mezzi di comunicazione, delle occasioni del presente, è lingua condivisa, conseguenza degli stili di vita, anch’essi mutati. Allora una ripartenza tentata umilmente, col timore del confronto, ma con la voglia di provarci, di farsi sotto, tastare il terreno, vedere se nel 2019 si può ancora vivere di musica e canzoni, farne un mestiere. La risposta stava nelle mani del pubblico. Perché ciò che resta dell’industria musicale – il comparto dei concerti, un paio di major, il sistema dei management, i media e l’arcipelago del web – s’è accorto dei movimenti in atto e ha preso a monitorarli. Poteva essere un fuoco di paglia, visto com’è andata coi talent, che hanno il respiro d’una sera e il più delle volte ti ricacciano nell’anonimato. Ma poteva essere la volta buona, quella in cui un movimento ritrova senso e riprende a pulsare. Gli ingredienti si presentavano vari e interessanti, proprio perché non generati da una ricetta prefabbricata, ma provenienti da una selezione naturale dei modi di mettersi in scena attraverso il filtro della musica. Nel frattempo prendeva forma la migrazione dal Rap al Pop, secondo uno schema evolutivo che si ripete ovunque nel mondo. C’era anche la strana parabola del Trap, che contribuisce a innovare, inscenando una teatralizzazione della canzone non priva di una sua ritualità. E c’è questo assodato, inedito costume delle collaborazioni, rafforzato dalla nuova generazione di musicisti, perché l’idea di “collaborazione” in altri campi della creatività e del marketing già da un pezzo è un potente meccanismo d’innovazione. Vanno giù le barriere: anagrafiche e razziali, geografiche e di genere. Si allestisce nuovamente il grande calderone di culture, che poi altro non è che quello che un tempo si chiamava “scena”.

 

L’esplosione è stata forte e gli effetti imprevisti. Allorché si sono rotti gli argini e un pubblico trasversale ha intercettato i segnali, la connessione è stata immediata. C’era questo plotone nutrito di principianti, debuttanti e riciclati, di bianchi, beige, marroni e neri che, cantando nell’italiano parlato dagli under 30 di oggi, ha riversato sul mercato poetiche e canzoni, show e facce da scoprire. Tutto è successo in modo fulmineo. I migliori sono partiti a razzo, gli altri, quelli privi di argomenti, sono rimasti al palo e si sono inabissati. Il titubante show business italiano è rimasto un attimo in souplesse. Che succede? Ricomincia la festa? Le cronache raccontano di una certa tenace resistenza al fenomeno, ad opera di chi ha preso ad aggirarsi scuotendo la testa e sussurrando: “Questi tipi sono inascoltabili! Come siamo finiti così in basso? Perché non si abbeverano alla fonte degli originali?”. Si è delineata la grande frittata del fronteggiamento. Vecchi contro giovani, come ai bei tempi. Quelli che “nessuno lo fa come una volta” contro quelli del “provate a capire: ma forse non fa per voi. Tornate a sentire ‘Eskimo’”.

 

Ma a chi diavolo appartengono queste facce nuove? Sono la reincarnazione dei cani-sciolti-sangue-misto-sfigati d’un tempo. Sono italiani e immigrati. Sovente frutto d’educazioni incomplete, magari integrate a spot, individualmente. Parlano con l’accento delle parti loro e non si sforzano di migliorarlo, anzi, ne fanno un vezzo. Hanno cominciato da piccoli, ma senza una vera gavetta, attraverso un apprendistato caotico, con gli amici, davanti al laptop, a casa o (puntualmente) in giro per il Salento. Hanno un sacco di cose da dire, ma nessuna che esca dalla loro sfera personale delle relazioni: amori che vanno a male, amici-unico rifugio, quelli che restano e quelli che tradiscono, un’interminabile normalità, perfino una qual difesa da ciò che potrebbe frantumarla. Più che altro, si beve, si fuma, si parla e si scopa – poco. Si descrive, con cadute di concentrazione, come si sta e come oltre il vetro della finestra non s’intraveda quasi niente. E’ la potente emersione di un iceberg: non appena Coez, Achille Lauro, Ghali e Gazelle, Carl Brave, Mahmood e Frah Quintale, i Cani e Franco 126, Paradiso, Willie Peyote, Cosmo, Calcutta e un esercito di compari cominciano a cantare, è come se una generazione avesse tardivamente trovato la favella e il linguaggio per farsi capire. I flow romaneschi, meridionali e settentrionali si mescolano in una babele di parole, racconti, schegge di ciò che è successo nel loro universo impercettibile, trascurabile al cospetto dei grandi drammi trasversali.

 

 

Sono i ragazzi italiani di oggi, con le loro storie, gli interrogativi, gli entusiasmi e gli sconforti, soprattutto i loro sentimenti, malconci a forza d’essere bistrattati, svalutati, accusati d’insicurezza e patologica distrazione. Descritti come una perenne occasione perduta, non fosse per qualche start up che funziona e per le mobilitazioni nella ingenua speranza di salvare il pianeta. Il flusso del loro discorso non ha pretese universali: è indirizzato a chi lo può intercettare al volo, a quelli come loro, ai coetanei che condividono il modo di vivere, informarsi, mangiare e soprattutto relazionarsi. Qualcuno ha battezzato tutto ciò, allorché prende forma di canzoni, “ItPop”. Non granché come nome, ma tanto vale: schiude un mondo, richiama folle che accorrono e trasformano questa banda di sciamannati in star istantanee, a colpi di sold out che elettrizzano lo showbusiness, che già si fregava le mani perché i cugini del Trap danno discrete soddisfazioni commerciali. Qui è addirittura tutto più facile, meno modaiolo, questa è semplice musica leggera. E funziona come un meccanismo di precisione, perché è sincronizzata sul battito del presente. Così, infine e con timidezza, si consuma il tanto sospirato ricambio. Un’intera scena sale alla ribalta, attenta a non rompere niente, pronunciando parole di riconoscenza per i venerabili maestri. Con garbo, salutando la chance d’avere un pubblico e forse un futuro musicale. A circondarli l’affetto di quelli come loro, sufficiente per riempire i palasport. Ma anche il sospetto di chi pronuncia la sentenza: non li si può prendere sul serio. Anche se hanno conquistato i palchi più popolari, se hanno proliferato a Sanremo o al Primo Maggio, è solo questione di quattrini. Non paragoniamo l’acqua e l’olio. Quelli di prima avevano la visione e la profondità, la statura e la ricerca, la preparazione e gli argomenti. Parlavano di politica e di storia, di lotte e di conflitti e anche quando erano alle prese con le pene amorose – vuoi mettere? – saltava agli occhi la cultura, la conoscenza, la frequentazione dei poeti, dei francesi e degli americani, perfino dei romantici inglesi e dei tedeschi. Questi non hanno letto un libro, in testa hanno solo frammenti di vecchia tv, Disney Channel e “Art Attack” con Giovanni Muciaccia, e poi sono immersi nel mondo virtuale che cancella la realtà, uscendone solo per una birra, una canna e un po’ di sesso a prospettive-zero. Non hanno nemmeno il sano nichilismo anarco/pessimista dei primi rapper: qui si tira a sopravvivere, lifestyle di resistenza, logiche di massimo risparmio, consumi pochissimi e progetti che contemplano solo viaggi miserabili. Non si occupano di immigrati e di razzismo, di differenze e di ingiustizia, di ricchezza e povertà, su questi argomenti tirano dritti con nonchalance, quasi che il problema sia degli altri, mentre loro sono impegnati in cose minori, più che altro dare una forma alla loro vita. Si delinea un grande no-contest d’incomunicabilità, tra due pubblici e due mondi, sebbene col passare dei mesi questa musica e i suoi interpreti assurgano clamorosamente al mainstream, scalzando ciò che c’era prima, imponendosi come il suono su cui la disgraziata industria italiana della musica può ricostruirsi una dignità.

 

Rifacciamolo: prendiamo una delle migliori canzoni di questa nuova galassia di popolarità (“populismo musicale”, lo bollano i denigratori, dimenticando che il pop ha comunque bisogno di fare grandi numeri, per essere tale). Prendiamo Frah Quintale, ex-rapper bresciano, convertito a canzoni neo-confidenziali-andanti, che incontra gran successo. La sua “8 miliardi di persone”, fa così, su un flow accattivante: “Tu mi parli, io ti guardo, come se fossi su un altro pianeta. Siamo così diversi, così distanti, che non so più nemmeno chi ho davanti. Puoi confondere anche gli altri, sì, ma non me, che potrei scriverti a occhi chiusi come il mio nome, che hai un cuore così grande che puoi fare entrare tutte le persone come nulla fosse. Dove sei? Stavo cercando di vederti in mezzo a tutta questa folla. Riconoscerei il tuo nome tra quasi 8 miliardi di persone”. La lingua di Frah è “normale”, senza abbellimenti poetici e smancerie piacione. Ciò di cui parla, è emotivamente immediato: amore e altri dispetti, con una sincerità e una credibilità che commuovono gli osservatori e coinvolgono chi è nella sua stessa situazione. I concetti sono basici, il linguaggio è breve, niente giri di parole, un palese intreccio con la verità – e non è poco. Già, perché i giovani critici che provano a definire i trend dell’ItPop arrivano intanto a citare i “Frammenti di un discorso amoroso” di Roland Barthes, per individuare un parametro di riferimento a questo linguaggio che oggi, misteriosamente, comunica più di qualsiasi altro, una volta applicato alla musica italiana. Il messaggio latita? Forse proprio la sua assenza dal linguaggio costituisce un’identità, abbinata al coraggio di ammetterlo, alla voglia di lamentarsi anziché protestare, perché dà più conforto e il risultato non cambia. Ad apparire sostanziale, in questo canzoniere che si va allargando, è invece il gioco dei riferimenti. Quello che permette che nella precarietà sottesa a questa narratività, il pubblico degli ascoltatori si rispecchi con sollievo, sposando anche la differenza dialettale che un tempo era un gap: ecco che le cantate in slang romanesco di Carl e Franco vengono accolte con complicità sui palcoscenici del nordest, o gli estetismi partenopei di Liberato assumono valore di piacevole detour dal sofferto rap vesuviano. Ecco che Achille Lauro fa sensazione mormorando schegge del discorso, un mantra quasi da brivido, solo le griffes, i miti dell’edonismo, citazioni tribali, altro non c’è bisogno di scomodarsi a dirlo. Quello dell’ItPop appare come un mondo perduto ma pacificato, “post” tutto, con uno storytelling che a una sola cosa non rinuncia: all’ironia dell’autorappresentazione, sotto l’incombere di un cielo cupissimo. Non bisogna parlare d’infantilismo, ma di strategie di conservazione. Perché ora, tocca a loro. Queste canzoni sono loro. E dunque? Ha senso il diffuso scetticismo verso questa nuova musica italiana? Ha senso dire che la canzone d’autore è morta, perché questi inascoltabili autodidatti non hanno la forza per sviscerare il mondo d’oggi? Ha senso invocare le forme di ieri, la pulizia e il livello, a fronte di una musica raggomitolata su un eterno soggetto amoroso, vittima d’una crisi di cui è effetto e non causa? A voler fare psicologia spicciola, c’è angoscia nell’ItPop. Eppure i suoi concerti sono una sequela di successi. I ragazzi partecipano, sorridono, s’immedesimano. Il pop italiano torna a essere lo specchio della nostra società.

 

Se questa fa confusamente orrore, non è cosa che, pateticamente, possa essere imputata a Calcutta, che canta le sue avventure d’ogni giorno – e tutti giorni senza ideologia. Poi questo momento passerà, nuove armi, nuovi argomenti e linguaggi accederanno agli immaginari creativi. Nel frattempo sarebbe giusto farsi da parte e stare a guardare. Rimettendosi al verso con cui De Gregori profeticamente chiudeva la parabola onirica di cui sopra, gorgheggiando lievemente: “Io dico ‘Non può essere vero’ e loro dicono ‘Non è più vero niente’”.

Di più su questi argomenti: