La musica si guarda

Non solo videoclip. Perché la narrazione musicale si è data alle produzioni serie. Il caso Beyoncé

Francesco Abazia

Roma. Con il termine “visual album” si identifica, in maniera abbastanza generale, un prodotto audio-video che unisce a un album musicale la proiezione di un lungo video, o di un insieme di essi, che costruiscono sulla musica una narrazione ben definita. Nonostante il concetto di unire musica e video non sia esattamente nuovo – già negli anni Settanta e Ottanta, rispettivamente i Beatles e Prince avevano realizzato progetti simili – possiamo considerare i “visual album” come l’ultima vera novità musicale contemporanea. Dai primi anni ’10 in poi, cioè da “Runaway” di Kanye West prima (un corto abbastanza astratto diretto da Hype Williams) e “Oddsac” del gruppo Animal Collective, avevano iniziato il pubblico a questa nuova forma di comunicazione. Come notato da Judy Berman su Pitchfork, quel lungo periodo di transizione che passa dagli anni Novanta (intervallato forse da “Daft” dei Daft Punk, che pure aveva una struttura molto strana) coincide non a caso con l’esplosione di Mtv e dell’idea di videoclip musicale, che hanno plasmato il modo in cui un’intera generazione si è approcciata alla musica.

  

 

Poi è arrivato “Lemonade” di Beyoncé, nel 2013, a riscrivere completamente la nostra idea di “visual album”. Prima di tutto per il modo in cui è stato distribuito: inizialmente era possibile ascoltare l’album solo guardando il corto che lo accompagnava, solamente in un secondo momento il disco è comparso in streaming (e solo su Tidal, la piattaforma lanciata da Bey e da suo marito Jay Z). La rilevanza culturale di “Lemonade”, in cui vengono affrontati diversi temi, dal femminismo alla cultura afroamericana fino ai fatti privati di Queen Bee, ha aggiunto valore al progetto: “Con Lemonade, Beyoncé ha quasi trasformato il formato album, rendendo difficile da ascoltare se non per intero”, si legge sul Guardian. È un concetto per certi versi reazionario, nell’èra della riproducibilità digitale e degli streaming, ma sottende un’altra idea molto importante: la riappropriazione della propria narrativa. Perché in questo modo il messaggio dietro la propria musica si esplicita, e non c’è modo migliore di farlo se non associando le immagini al suono. È così che gli artisti hanno disintermediato la loro arte, arrivando in maniera diretta al pubblico. Frank Ocean è un altro ottimo esempio di questo nuovo modus operandi: “Endless”, il visual album che ha anticipato l’uscita di un altro album, “Blonde”, risponde ai canoni di complessità e interezza di “Lemonade”.

 

  

Beyoncé e Frank Ocean sono poi accomunati da una certa reticenza a concedere interviste, lasciando piuttosto parlare i loro social e, di nuovo, disintermediando la narrativa attorno a loro come protagonisti. La bellezza e la peculiarità del formato stanno nell’impossibilità di etichettare e dare delle precise definizioni di “visual album”. Nel suo paper “The visual album as hybrid art-form”, Cara Harrison prova a definire due caratteristiche per l’identificazione di un visual album: una relazione diretta tra video e un album audio e una durata maggiore a quella di un videoclip standard. In realtà certi criteri di valutazione andrebbero bene, per esempio, per “When I Get Home”, l’ultimo progetto artistico di Solange (sorella di Beyoncé), ma vacillerebbero con “Nasir”, il bel progetto musicale e visivo del rapper Nas prodotto da Kanye West. Non sarebbero invece validi per tutti i video realizzati dal premio Pulitzer Kendrick Lamar per il suo disco “DAMN.”, perché non fanno parte di un unico girato. Forse, ai pur validi criteri individuati da Harrison, andrebbero aggiunti la coerenza narrativa e la volontà di raccontare una storia. Non è un caso che in tutti i più interessanti visual album degli ultimi anni, la storia da raccontare abbia sempre fatto riferimento alla black identity più che al tema del razzismo, nel momento in cui la black music diventava il vero mainstream.

 

    

Prima la televisione 

C’è però un’ultima evoluzione che i visual album sembrano aver intrapreso, un’evoluzione naturale e quasi ovvia: la televisione. O meglio, quella che ormai è considerata la nuova televisione, e cioè lo streaming. Nelle ultime settimane sui due principali player del settore, Netflix e Prime, sono comparsi due progetti di Beyoncé e Donald Glover, due degli alfieri della rivoluzione culturale black. Beyoncé ha presentato “Homecoming”, un documentario/riassunto della sua monumentale esibizione al Coachella di qualche anno fa. Pezzi di storia nera uniti al racconto della preparazione dello show, oltre che la quasi totale proiezione dello show. L’operazione tentata da Glover (alias Childish Gambino) è diversa: “Guava Island” è una sorta di musical atipico, un mediometraggio con una trama semplice, intervallato dall’esecuzione di alcuni dei suoi ultimi brani.

  

  

L’enorme libertà creativa che le aziende sopracitate lasciano ai musicisti nella realizzazione dei loro progetti potrebbe essere per davvero il modo per interpretare la simbiosi completa tra audio e video, riuscendo in quel progetto utopico solo abbozzato da YouTube. La domanda è: i video finiranno con il mangiarsi completamente la musica? È un rischio, ma un rischio che si deve essere disposti a correre in cambio di una complessità artistica sempre maggiore.

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