Steve Aoki (a destra) ai Latin Grammy Awards di Las Vegas. Foto LaPresse

La piccola Italia e il fenomeno K-pop che manco ci sfiora

Giulia Pompili

Mentre ci accapigliamo per le origini di Mahmood fuori il mondo è già cambiato

Roma. “Quando scopri gli artisti del K-pop resti di sasso. Chiunque faccia clic su un video e li guardi ballare, con quello stile e quel modo di cantare, riconosce l’incredibile talento che hanno. E’ un fenomeno che sta accadendo proprio ora. L’ho avvertito quando ho ascoltato per la prima volta i Big Bang, qualche anno fa. Da allora ho cercato e scoperto sempre più band di questo tipo”. Steve Aoki è uno dei dj più celebrati e pagati del mondo, re indiscusso dell’edm, l’electronic dance music. Spiegando a Nme la sua collaborazione con i Bts, il gruppo che siede sul trono del K-pop mondiale – la musica pop coreana – Aoki ha detto: “Era un segreto molto ben custodito. Siccome cantano in coreano, nessuno ne sapeva granché. Ora le persone scoprono la musica in modo diverso, e non c’è bisogno che sia in inglese. La gente è affascinata da sonorità diverse, che vengono da diverse culture”.

   

Steve Aoki non è esattamente uno di cui diresti: ascolta il K-pop, almeno non quello a cui pensiamo noi. Capelli lunghi, fisico atletico, sette milioni e mezzo di follower su Instagram, a quarantuno anni ha un tale curriculum da produttore, musicista, filantropo, milionario, che può permettersi di tutto, pure di remixare “Bella Ciao” e farne un prodotto da discoteca senza che in Italia si indigni nessuno. Però il fatto che abbia confessato la sua passione per il K-pop dice molto della rivoluzione che sta accadendo nell’industria musicale per via del fenomeno disruptor che arriva dall’estremo oriente. Aoki è un californiano, ma è figlio di Rocky Aoki, un wrestler giapponese piuttosto noto, e ha un naturale interesse per ciò che arriva dall’Asia, ma spiega bene che è il modo in cui si producono le cose, e poi si ascoltano, che ha avvicinato l’occidente ai prodotti preconfezionati e ricercatissimi che da anni sono una macchina da soldi in Corea del sud. I Bts – sette ragazzi di bell’aspetto messi insieme nel 2013 dalla Big Hit Entertainment – sono l’equivalente del sushi per la cultura giapponese. Secondo lo Hyundai Research Institute generano un giro d’affari da 3,6 miliardi di dollari l’anno in Corea del sud, l’equivalente di 26 medie imprese, e sono diventati un asset economico insostituibile per il governo di Seul. Tra il 2017 e il 2018 il loro successo è stato consacrato anche in America, l’ultimo disco “Love Yourself: Tear” a maggio dello scorso anno è stato il primo album k-pop a raggiungere la vetta della classifica e sono già stati pure nel salotto buono di Ellen Lee DeGeneres. Ma i Bts non sono i soli. Le Blackpink, gruppo composto da quattro ragazze create nel 2016 dalla potentissima YG Entertainment, sono nate per conquistare il mercato americano: il brano “Kiss and Make Up” uscito quattro mesi fa è entrato in classifica ovunque ma è soprattutto “l’oriente incontra l’occidente tra ragazze internazionali”, ha scritto Forbes, perché è una canzone nata dalla collaborazione con Dua Lipa, reginetta dei Brit Awards, cantautrice britannica di origini balcaniche. E così le quattro Blackpink saranno anche il primo gruppo k-pop a conquistare il palco del Coachella, il Festival della sperimentazione di Indio, California, in programma per il prossimo aprile, e il loro tour americano ha già sessantamila biglietti venduti.

   

In settimana i Bts hanno annunciato le date del tour mondiale, e gli unici show europei saranno allo stadio di Wembley di Londra e allo Stade de France di Parigi. Una delusione per i fan italiani, che però sono ancora pochi rispetto a quelli inglesi e francesi. In Inghilterra e in Francia ci sono migliaia di ragazzini che ogni anno si mettono a studiare il coreano per cantare le canzonette k-pop, e prenotano voli per Seul per partecipare ai tour k-pop. Un fenomeno che suona anni luce distante dalle polemiche sui messaggi subliminali del testo della canzone che ha vinto Sanremo, dal modo in cui è affrontata la questione delle sue origini, dalle proposte del governo italiano di limitare il passaggio alla radio delle canzone di artisti stranieri.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.