Domenico Modugno a Sanremo nel 1958 (foto LaPresse)

La fuga dei Bocelli

Maurizio Stefanini

Qui solo sesto, in America “Sì” di Andrea Bocelli vola in testa alla hit parade: non accadeva dai tempi di “Volare”. Storie e paradossi della canzone italiana all’estero

Sì: Andrea Bocelli contro un paradosso. “Sì” è il titolo dell’album con cui il cantante pisano a cavallo tra classica e pop, dopo essere già stato il solista di maggior successo in tutta la storia della musica classica, in questo novembre è arrivato al primo posto nella classifica degli album più venduti negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Erano sessant’anni che una canzone italiana non era prima nelle hit parade Usa: “Volare” di Domenico Modugno, che vendette in tutto il mondo 22 milioni di dischi, e le cui cinque settimane al numero uno erano state, appunto, un unicum. Mai successo prima; mai più successo dopo, fino appunto a Bocelli. Ma è poi la prima volta in assoluto che la “doppietta” anglo-americana riesce a un cantante italiano. Nel dettaglio, è primo posto in Stati Uniti, Inghilterra e Scozia; terzo in Canada, Irlanda e Corea del Sud; quarto nel Belgio fiammingo (curiosamente nel Belgio vallone è invece solo 53esimo); solo sesto in Italia. Nemo propheta in patria… E poi settimo in Australia e Paesi Bassi, e dodicesimo in Germania.

 

E’ vero: quelli di “Volare” erano i tempi del 45 giri, facciata principale e lato B. Due canzoni sole. “Sì” è invece un album con 12 pezzi, che diventano 16 nell’edizione deluxe, e 18 con le tracce bonus dell’edizione di Target. E c’è pure un’edizione spagnola con 13 tracce: anch’essa sale a 18 nell’edizione deluxe. Bocelli canta quindi non solo in italiano ma anche in inglese, in spagnolo e perfino in latino: una “Ave Maria Pietas” in duetto con il soprano russo di etnia tatara Aida Garifullina. Ma comunque è l’italiano la lingua predominante nell’edizione che ha sfondato nel mercato anglosassone.

 

E’ anche la prima volta in assoluto che la “doppietta” anglo-americana riesce a un cantante italiano

E immaginiamo a questo punto l’obiezione: ma come? Non si dice in continuazione dei cantanti italiani che spopolano all’estero? In realtà, sul successo della musica leggera italiana all’estero esiste una sorta di geopolitica, di cui si occupò nel 2012 per il Mulino un libro scritto da uno studioso al tempo stesso leggero nel tono rigoroso nei contenuti: Stefano Telve, docente di Linguistica italiana all’Università della Tuscia. “That’s amore! La lingua italiana nella musica leggera straniera” era il titolo. Sei anni sono passati, ma la divisione che fa Telve del globo in quattro aree è ancora sostanzialmente valida, anche dopo la novità del successo di “Sì”.

 

Area numero uno, dunque. E’ quella romanza e anglofona dell’Europa occidentale: Spagna, Francia, Regno Unito, Irlanda, ma estendibile all’Australia. Qui domina l’italiano del canto lirico d’ascendenza melodrammatica, appunto alla Pavarotti e Bocelli e al più recente “Il Volo”: terzi infatti all’Eurofestival del 2015, ma primi al televoto. Dopo Modugno e i primi anni Sessanta, è invece minimo l’interesse per il pop melodico italiano. “L’italiano tuttavia emerge quasi sempre solo in brevi momenti, in singole espressioni caratterizzanti, e non riesce a imporsi davvero nei testi delle canzoni”. Fa eccezione la Francia, dove l’impronta lirica passa non solo nelle nuove voci tenorili, ma anche in quelle di tipo pop e soul-blues: Eros Ramazzotti, Laura Pausini, Zucchero, Nek, Tiziano Ferro.

 

Il secondo gruppo è quello dell’Europa centrale: Germania, Svizzera, Belgio, Olanda, Svezia, Danimarca. Anche qui sfondano la Pausini, Ramazzotti e Bocelli, ma c’è in più una forte presenza del repertorio melodico italiano della generazione precedente: da Adriano Celentano ad Al Bano e Ivan Graziani. E qui c’entra molto un folto pubblico di emigranti, che permettono anche il successo di alcuni cantanti in italiano pressoché sconosciuti in Italia: da Francesco Napoli a Marco Borsato o a Mauro Scocco. Appartiene a questo filone anche l’imbarazzante record che tra 2000 e 2005 ebbero in Germania i tre album “La musica della mafia”, che poi in realtà riguardavano la ‘ndrangheta. Ben 150.000 copie vendute!

 

Gruppo numero tre, l’Europa orientale e meridionale. Qua la data di riferimento è il 1983, quando l’Unione sovietica di Andropov decide di trasmettere il Festival di Sanremo. Non in diretta, ma alcune settimane dopo, in modo da evitare sorprese. L’effetto è comunque dirompente, anche perché da sempre la musica occidentale sui media sovietici era bandita. In molti ritengono che Andropov da ex capo del Kgb in realtà aveva di prima mano le informazioni sul punto di decomposizione cui il

Il linguista Stefano Telve
ha individuato quattro aree
nel mondo, ciascuna con una propria tipologia di musica italiana
da esportazione

sistema era arrivato e sulla stanchezza della gente, e che dunque sia stato lui il primo ideatore di una riforma che però per la sua morte improvvisa non riuscì a portare a termine, e che sarebbe stato Gorbaciov a ribattezzare “perestrojka”. Un Sanremo in differita, probabilmente, sembrò un primo esperimento di apertura meno impegnativo del rock o del pop anglosassoni. Trecento milioni di sovietici poterono sentire Kutunio, alias Toto Cutugno: col suo “L’italiano” arrivò quinto ma vendette di milioni di copie in tutto il mondo, e viene tuttora celebrato da milioni di fan russi come “il maestro melodico più grande di tutti i tempi”. Il successo si ripete nel 1984, quando il Festival viene trasmesso addirittura cinque mesi dopo: il 20 luglio. E condensato in un’ora, ma il primo posto di Al Bano e Romina Power con “Ci sarà” contribuisce a lanciare un mito. Nel 1985 arriva al potere Gorbaciov, mentre a Sanremo vincono i Ricchi e Poveri. L’anno dopo i Ricchi e Poveri fanno in Russia il loro primo tour: 44 concerti con 780.000 spettatori, e il 21 novembre 1986 anche una comparsa in tv. Nello stesso 1986 la televisione sovietica invita anche altri personaggi di Sanremo a esibirsi in russo. Sono le premesse per il travolgente successo che dopo la caduta del Muro di Berlino in tutto il blocco ex comunista ha “Libertà” di Al Bano e Romina Power: pezzo in realtà del 1987, che però diventa una sorta di inno delle Rivoluzioni di velluto. Dopo questo apripista, negli anni Novanta sfondano Pavarotti e Ramazzotti, fulcro della presenza italiana in Polonia e Ungheria. In Romania hanno successo anche Tiziano Ferro, Zucchero, Paola e Chiara e Nino D’Angelo, mentre in Lituania tra 2003 e 2005 Tiziano Ferro strappa il posto di italiano più popolare a Eros Ramazzotti. Molto amati nella zona anche Tito Cutugno e Nek. Con parabola un po’ inquietante, Al Bano nel frattempo è diventato un grande ammiratore di Putin. Lo ringrazia, addirittura, per aver voluto nell’ottobre del 2013 quei tre concerti alla Crocus Hall di Mosca che gli hanno permesso di tornare a cantare assieme a Romina dopo 16 anni. Su YouTube comunque si trovano in abbondanza auguri di compleanno canori al presidente russo da parte non solo di Al Bano, ma anche di Pupo, Ricchi e Poveri, Toto Cotugno e Riccardo Fogli, che è andato a cantare nella Crimea annessa.

 

Gli italiani che vincono festival
in America latina e da noi sono perfetti sconosciuti. La lingua
della musica e la colonizzazione
del Dopoguerra

Infine il gruppo numero quattro: America latina e Stati Uniti. Presenza abbondantissima, ma in gran parte tradotta in spagnolo e portoghese: da “Tardes negras” e “No me lo pudo explicar” di Tiziano Ferro, a “Escucha atento”, “Viveme” e “Y mi banda toca el rock” di Laura Pausini, passando per “Nuestra Vida” di Eros Ramazzotti. In America latina esiste d’altronde dal 1960 quel Festival cileno di Viña del Mar che è un chiaro clone di Sanremo: propiziato dal successo strepitoso di alcune precedenti tournée di Renato Carosone, Teddy Reno e soprattutto Domenico Modugno, e in qualche modo legittimato attraverso un gemellaggio. Il debito col nostro paese è anche saldato dal particolare che dopo i padroni di casa cileni, a vincere più edizioni sono stati proprio cantanti italiani, anche se da noi restano magari dei perfetti sconosciuti. Nell’albo d’oro le vittorie italiane sono infatti dieci, contro le 22 del Cile, le sei della Spagna, le cinque dell’Argentina, le due di Colombia e Canada, una a testa per Germania, Australia, Costa Rica, Francia, Grecia, Israele, Paesi Bassi, Perù, Repubblica Dominicana, Uruguay e Islanda. Nel 2015 ha vinto ad esempio “Per fortuna”, cantato dal pugliese Michele Cortese. Nel 2012 “Grazie a te” della romana Denise Faro. Nel 2010 addirittura una cover del classico “Volare” di Domenico Modugno, eseguita dalla pugliese Simona Galeandro. E nel 2008 “La guerra dei trent’anni”, di un altro pugliese, Domenico Protino. Poiché nel 1987 Tony e Anna Desà avevano vinto con una “Kiss me” in inglese, la lingua italiana è risultata vincitrice solo nove volte: comunque seconda dopo le 40 vittorie dello spagnolo, e davanti alle otto vittorie dell’inglese e a una del greco. Mentre nella serie storica delle hit parade Usa, sei anni prima di questo exploit di Bocelli Telve registrava che, a parte qualche cosa di Josh Groban, spiccava ancora quel primo posto di Modugno del 1958.

 

Ma il paradosso che Bocelli ha sconfitto è appunto questo: l’italiano ha difficoltà a essere esportato come lingua della canzone pop di oggi, ma al contempo è lingua della musica tout court. Condoleezza Rice, che è stata segretario di stato nella seconda Amministrazione Bush, si chiama in quel modo strano perché la madre, pianista appassionata, voleva chiamarla “Con Dolcezza” secondo l’indicazione musicale. Ma l’ufficiale di stato civile non era versato né di musica e né di italiano, e così mise una “c” al posto della “e”. I musicisti di tutto il mondo leggono appunto in italiano le indicazioni di tempo – largo, grave, larghetto, andante, moderato – oltre che “con dolcezza”. E i nomi delle note, piano, opera, soprano, mezzosoprano, contralto, viola, anche il “piccolo”: nome inglese di quello che in Italia è l’ottavino. Mentre sono di chiara derivazione italiana pure in inglese violin, mandolin, clarinet, e anche cello (da violoncello).

 

Il Festival di Sanremo trasmesso
nel 1983 nell’Urss di Andropov:
il successo di Toto Cutugno e, l’anno dopo, il fenomeno Al Bano

Dopo aver per secoli invaso il mondo con i suoi compositori, le sue opere e le sue romanze, l’Italia è per lo meno dalla fine della Seconda guerra mondiale, se non da prima, fortemente colonizzata dalle mode musicali provenienti dal mondo anglosassone. Tant’è che perfino quando per ritrovare un po’ di radici cerchiamo di buttarci sulla musica più autoctona, anche quella finiamo per definirla come folk o world music. Eppure, malgrado questa apparenza, secondo Telve in realtà il seminato in tanti secoli di eccellenza musicale italiana continua ancora a dare raccolto, e “fuori d’Italia, la fama secolare dell’italiano ‘lingua del canto’ per eccellenza resta ancora viva e vitale”. “Accanto all’italiano da esportazione di Caruso, Modugno, Pausini, Bocelli si registra infatti anche una diffusione della nostra lingua in bocca straniera che nasce e prospera nella produzione estera trasversalmente a epoche e generi musicali”.

 

Emblematico è l’anglo-italiano di Dino Crocetti in arte Dean Martin nella canzone scelta appunto come titolo del libro: “When the moon hits you eye like a big pizza pie/ That’s amore/ When the world seems to shine like you’ve had too much wine/ That’s amore/ Bells will ring ting-a-ling-a-ling, ting-a-ling-a-ling/ And you’ll sing ‘Vita bella’/ Hearts will play tippy-tippy-tay, tippy-tippy-tay/ Like a gay tarantella”. All’epoca in cui l’aggettivo “gay” veniva ancora usato nel suo senso originario di “felice”… Sullo stesso spirito ma testimoniante un’Italia che già si sta americanizzando è “Mambo italiano”, anch’essa dei primi anni Cinquanta: “Hey mambo, mambo italiano/ hey hey mambo mambo italiano/ Go go go you mixed up siciliano/ All you calabrese do the mambo like-a crazy with the/ Hey mabo don’t wanna tarantella/ Hey mambo no more mozzarella/ Hey mambo mambo italiano try an enchilada with a fish baccala”. Ma qualcosa del genere rimbalza perfino nella epocale “Bohemian Rhapsody” dei Queen: “Scaramouch, scaramouch will you do the fandango/ Thunderbolt and lightning - very very frightening me/ Gallileo, Gallileo,/ Gallileo, Gallileo,/ Gallileo Figaro – magnifico”. Lo stesso Elvis Presley, colui da cui gran parte della colonizzazione coloniale anglosassone viene fatta risalire, in realtà il suo più grande successo, con 20 milioni di copie vendute, lo fece con “It’s now or never”: cover in inglese di quell’“O sole mio” che per il pubblico americano era rimasta un’icona di italianità e di bel canto fin da quando l’aveva incisa il grande Caruso.

 

Ma poi troviamo “Makaveli” citato nell’hip hop. Il futurismo di Marinetti che ispira il post-punk dei Tuxedomoon. I tedeschi Haggard che mescolano la loro lingua a latino, inglese, francese, russo e italiano nel loro album dedicato a Galileo Galilei. I norvegesi Ancient, che cantano i primi nove versi della “Divina Commedia”. E così via. Dal libro di Telve merita forse di essere ancora ricordata la segnalazione che già Bocelli con le 12 milioni di copie vendute di “Con te partirò” aveva stabilito il record della canzone italiana più venduta di tutti i tempi, e dell’undicesima in assoluto: anche se al numero cinque della hit parade mondiale c’era in effetti un’altra canzone italiana, ma cantata in inglese. La già citata “It’s now or never”, cioè “O sole mio”. Insomma, lo spazio per esportare il canto in italiano c’è. Come dimostra Bocelli, tutto sta nel rendersene conto.

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