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Le luci e le ombre di Spotify

Nicola Imberti

La società si è quotata in Borsa. Gaetano Blandini (Siae): “La piattaforma ha contribuito ad aumentare la fruizione della musica legale. Ma c'è un gap tra il fatturato di questi provider e i soldi che arrivano agli autori”

Quando nel 1936 Walter Benjamin pubblicò la prima edizione del suo saggio “L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica” probabilmente immaginava già cosa sarebbe successo nei decenni a venire. Ma di certo non poteva immaginare che un giorno sarebbero scomparsi i rullini fotografici, il cinema sarebbe diventato fruibile da uno smartphone, la musica sarebbe diventata “liquida”. 

 

Oggi che Spotify si quota in Borsa, che il suo fondatore Daniel Ek viene considerato, al pari di Mark Zuckerberg, Jeff Bezos, Larry Page e Sergej Brine, tra i rivoluzionari del Terzo millennio, il titolo di quel saggio torna alla memoria come domanda: che ne è stato della musica nell'epoca della sua ormai “iper” riproducibilità tecnica? Nell'èra dello streaming che consente a chiunque di ascoltare ciò che vuole, quando vuole, dove vuole? Ma soprattutto come questo ha cambiato il modo di essere artista?

  

Perché se è vero che Spotify ha un valore di mercato di circa 26 miliardi di dollari, se è vero che la piattaforma di streaming continua e continuerà ad aumentare il proprio numero di utenti, la domanda che un po' tutti si fanno è: quanto di questo valore viene effettivamente trasferito ai musicisti? Lo streaming è un'opportunità o piuttosto lo strumento che ha “ucciso” la  musica spogliandola di passione e romanticismo e trasformandola in un sottofondo più o meno monotono delle nostre giornate?

  

“Ci sono luci e ombre - dice al Foglio il direttore generale della Siae, Gaetano Blandini (foto a sinistra) - La 'luce' principale è che con Spotify è aumentata la fruizione della musica legale. E che questo è avvenuto attraverso una società europea che ha così dimostrato che quando si parla di streaming musicale non ci sono solo i grandi colossi angloamericani. Si tratta di un mercato in continua espansione che è destinato ad esplodere non appena Spotify riuscirà a penetrare anche in Cina e India. L'altro aspetto che secondo me è positivo, è che si tratta di un servizio musicale 'puro'”.

  

Blandini ricorda che attualmente Siae è al 7° posto al mondo tra le collecting society (le società che si occupano della gestione collettiva dei diritti d'autore) e “anche se parliamo di numeri piccoli, nel nostro bilancio gli introiti dal mercato multimediale e online stanno crescendo a ritmi impressionanti e sono passati dai 6,7 milioni di euro del 2012 ai 17,6 milioni di euro del 2016. Il problema e qui veniamo alle 'ombre' è il cosiddetto value gap, la differenza di valore tra il fatturato di questi provider e i soldi che arrivano agli autori”.

  

“Il mio presidente, Filippo Sugar - prosegue - racconta sempre che il primo disco di successo di Lucio Dalla è arrivato dopo che il suo editore musicale ne aveva prodotti sei che erano stati un fallimento. Ecco, se i soldi che arrivano agli aventi diritto (editori, autori, case di produzione, performer) sono pochi si perde la potenzialità di investimento, cioè il segreto del successo di ogni musicista, la capacità di riconoscere un talento ed investire per farlo emergere”.

   

Siae dal 2013 si sta attrezzando anche a livello europeo. “Stanno nascendo degli hub di collecting society che ci permettano di negoziare, insieme, condizioni più favorevoli con i provider come Spotify. Al momento in Europa ce ne sono due: Armonia, che abbiamo fondato insieme alla francese Sacem e alla spagnola Sgae, è poi c'è Ice che è invece stata creata dalla tedesca Gema insieme agli inglesi di Prs e gli svedesi di Stim. In questo modo riusciamo a ottenere una negoziazione migliore e a produrre una certa equità, evitando che alcuni nostri iscritti vengano favoriti a danno di altri. Dopotutto, come raccontato i dati del rapporto Italia creativa, l'industria creativa è il terzo datore di lavoro nel nostro Paese, con un valore economico di 48 miliardi che rappresenta il 3 per cento del Pil. Si tratta di un patrimonio che non possiamo perdere. Soprattutto se a metterlo in crisi sono provider che non solo non creano lavoro, ma spesso non lasciano un soldo del loro fatturato sul nostro territorio”.

  

Insomma secondo Siae, se da un lato Spotify permette ai musicisti di arrivare ad un pubblico potenzialmente infinito, dall'altro rischia di far prevalere un modello economico basato su “valori distorti”. “L'87-88 per cento del nostro repertorio - spiega Blandini - è costituito da musica popolare. Ma questo ci permette di tutelare anche repertori 'più fragili' come la lirica, il balletto, il teatro. Se passa la logica che il diritto d'autore si fonda solo su quegli artisti top che hanno milioni di ascolti o condivisioni su Spotify, rischiamo di non riuscire più a tutelare il resto. E questo significa perdere le nostre radici. Purtroppo c'è una spinta alla liberalizzazione che sta inquinando i pozzi. Le faccio un esempio. In America, dove il mercato è totalmente liberalizzato, i diritti d'autore vengono pagati solo ai primi 100 in classifica, gli altri vivono delle loro esibizioni. Non mi sembra una logica sana, anche perché, ad esempio, un grande utilizzatore non si sa mai se ha pagato tutti gli aventi diritto. O, peggio ancora, ritiene che alcuni aventi diritto non vadano pagati. E quindi il più delle volte si arriva in tribunale e le tariffe le decidono i giudici”.   

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