L'industria musicale asiatica si piega ai diktat cinesi: Taiwan non esiste

Giulia Pompili

“Quando si tratta di scegliere tra un accordo con la Cina o con Taiwan, l’industria del K-pop spesso sceglie la prima”, scrive il quotidiano sudcoreano

Roma. Il soft power cinese passa anche per le canzonette. Perché la geopolitica è fatta pure di piccoli insignificanti dettagli che però spiegano la rinnovata attenzione di Pechino a diffondere il messaggio unico e granitico della One China Policy. Gli organizzatori del Mnet Asian Music Awards 2017, i MaMa, una delle più importanti competizioni musicali asiatiche, lunedì hanno diffuso un comunicato nel quale annunciavano l’eliminazione delle categorie “Hong Kong, Taiwan e Macao” dalla gara, comprendendo “le preoccupazioni della Cina. Molti incidenti imprevedibili possono avvenire quando gestisci un’industria globale”. I MaMa, organizzati dal colosso coreano CJ E&M, sono praticamente gli oscar del K-pop, che originariamente era la musica pop coreana ma che oggi è considerato un genere a sé, con un giro d’affari da miliardi di dollari (4,7 all’anno, per l’esattezza, secondo l’agenzia coreana dei Contenuti creativi). La prima cerimonia di premiazione si terrà oggi, in Vietnam, poi il carrozzone musicale si sposterà in Giappone e a Hong Kong. Ma la diretta degli eventi arriva pressoché dappertutto, dall’Indonesia alle Filippine fino agli Stati Uniti. E potete capire quanto interesse abbia la Cina a mantenere ben chiare le priorità politiche in questo enorme spazio mediatico. La presa di posizione dei manager della CJ E&M arriva dopo che sui social network era iniziata una campagna di boicottaggio nei confronti dei MaMa 2017 per via delle categorie: se la Cina è una sola, perché alcuni artisti si esibiscono sotto la bandiera di Hong Kong? E la censura arriva quest’anno, nell’anno del Congresso e del consolidamento del potere del presidente Xi Jinping, non a caso: nelle precedenti edizioni molti artisti taiwanesi avevano perfino vinto, senza che Pechino avesse tentato di rimuoverne la nazionalità.

  

L’industria musicale coreana non può permettersi di perdere il mercato cinese. Secondo quanto riportato dal Korea Herald, nel 2012 la S.M. Entertainment, una delle aziende di intrattenimento più forti della Corea del sud, vendeva il 12,5 per cento in Cina. Dopo il boicottaggio economico lanciato da Pechino per via dell’istallazione del sistema antimissilistico Thaad, le vendite di S.M. Entertainment in Cina sono scese al 7,1 per cento. “Quando si tratta di scegliere tra un accordo con la Cina o con Taiwan, l’industria del K-pop spesso sceglie la prima”, scrive il quotidiano sudcoreano, spiegando che il business spesso si adegua alle regole che impone l’attore più forte del mercato. Nel 2015, nel periodo di lancio della pop band Twice, una delle componenti, Tzuyu, taiwanese di nascita, si presentò a un evento televisivo con una bandiera di Taiwan. Apriti cielo. Katy Perry, reginetta della musica americana, si è vista negare qualche giorno fa il visto da Pechino per partecipare allo show di Victoria’s Secret di Shanghai. Due anni fa, a un concerto a Taipei, aveva sventolato la bandiera taiwanese tra i girasoli simbolo del movimento studentesco.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.