“Il trovatore” in una figurina Liebig dei primi anni del Novecento. L’opera fu rappresentata per la prima volta il 19 gennaio 1853 al Teatro Apollo di Roma

Il Trovatore che Verdi, l'antitaliano, compose per gli italiani

Marina Valensise

In scena in questi giorni al Teatro dell’Opera di Roma uno dei titoli più amati dai melomani. Che rappresenta bene il carattere e l’idea stessa della nazione. Viaggio tra i segreti di fabbricazione di un capolavoro

Una zingara che uccide un bambino gettandolo nel fuoco, ma poi si accorge di aver ucciso suo figlio, anziché quello del conte, che andava punito perché aveva condannato al rogo sua madre, accusandola di stregoneria. Due fratelli che si ignorano e si danno battaglia, perché si innamorano fatalmente della stessa donna, la quale ama perdutamente il cavaliere conosciuto in un torneo – Manrico il trovatore, il suonatore di liuto che canta alla luce della luna sotto il di lei balcone – ma alla fine decide di entrare in convento e farsi suora, pur di non lasciarsi impalmare dal gentiluomo rivale dell’amato, alias il conte di Luna, che invece è pazzo di lei e soltanto alla fine scoprirà di essere il fratello dell’altro, condannato a morte…

 

Niente di più assurdo della trama del Trovatore, il capolavoro di Giuseppe Verdi, che fa parte della trilogia popolare composta nel pieno Ottocento romantico a cavallo degli anni Cinquanta, e coronata subito da immenso successo. Oggi Il trovatore è una delle opere più amate dal pubblico della lirica e non solo italiano. E in tutto il mondo continua a rappresentare la quintessenza non solo della musica, ma della lingua italiana che quella musica esalta, e della cultura italiana e dell’idea stessa dell’Italia, di cui il genio eclettico di Verdi (il più patriottico dei nostri compositori, salutato da D’Annunzio con un distico memorabile “Diede voce alle speranze di tutti. / Pianse ed amò per tutti”) fu il più acuto dei sismografi, il testimone ipersensibile, l’antropologo più spietato e suo malgrado, visto che di carattere egli era un perfetto antitaliano (schivo, riservato, ombroso, iracondo, addirittura avido e attento al soldo, stando alle 700 lettere pubblicate da Eduardo Rescigno nei Millenni Einaudi), e che forse proprio per questo è riuscito a farsene l’interprete più tragico e sublime, sino a essere identificato con l’Italia stessa da uno dei musicisti più famosi del mondo, come Riccardo Muti, il quale sulla scia di Arturo Toscanini, che alla Scala suonava il violoncello sotto la direzione di Verdi, ne ha scandagliato la grandezza, dimostrandone la straordinaria eleganza.

 

Ma andiamo con calma. Il nuovo dramma lirico in quattro parti, che Verdi compose nel 1851 su libretto di Salvadore Cammarano, era ispirato al dramma spagnolo El trovador di Antonio García Gutiérrez, messo in scena per la prima volta al Teatro Principe di Madrid nel 1836 e coronato da enorme successo. Drama cavalleresco, di ambientazione medievale e fosca, molto nel genere di Victor Hugo. Verdi, che non conosceva lo spagnolo, se l’era fatto tradurre da Giuseppina Strepponi, con cui all’epoca viveva more uxorio. “A me sembra bellissimo, immaginoso e con situazioni potenti”, scrisse da Busseto il 2 gennaio 1851 al poeta napoletano Cammarano, già librettista di Gaetano Donizetti, dandogli indicazioni precise: “Io vorrei due donne, la principale, la Gitana, carattere singolare e di cui ne farei il titolo dell’opera. L’altra ne farei una comprimaria. Fate voi che siete quell’ometto che siete… ma fate presto”, concludeva sollecitando il librettista (da Verdi, L’uomo nelle sue lettere, a cura di Franz Werfel e Paul Stefan, Castelvecchi 2013).

 

Aveva fretta Verdi. Era all’apice del successo. Da circa un anno era iniziata per lui quella che Massimo Mila nella sua meravigliosa biografia (Verdi, a cura di Piero Gelli, Saggi Bur, 16 euro) chiama “la fase della Prima perfezione”, che si sarebbe per l’appunto compiuta con la trilogia popolare, Rigoletto, Trovatore, Traviata, scritti velocemente nell’arco di tre anni. Non solo aveva fretta, ma a partire da quell’assurda trama spagnola di gitani, cortigiane e cavalieri innamorati, Verdi sognava di ricevere un testo innovativo, libero da schemi tradizionali, con forme nuove e bizzarre. “Tanto più Cammarano mi presenterà novità, libertà di forme io farò meglio”, scriveva a Cesare De Sanctis, lamentando a fine marzo del 1851 che il letterato napoletano, del Trovatore, non gli avesse ancora scritto nemmeno una parola. “Non considera niente il tempo che è una cosa per me estremamente preziosa”.

 

Eppure, Verdi gli aveva spiegato benissimo che cosa voleva. “Per me quando mi si presenta della poesia da potersi mettere in musica, ogni forma, ogni distribuzione è buona, anzi più queste sono nuove e bizzarre, più io ne sono contento. Se nelle opere non vi fossero né Cavatine, né Duetti, né Terzetti, né Cori, né Finali etc. etc., e l’opera intera non fosse (sarei per dire) che un solo pezzo, troverei più ragionevole e giusto”. Ricevuto finalmente il programma da Cammarano, il 9 aprile gli replicò con molta franchezza. “Non vi offenderete se io, meschinissimo, mi prendo la libertà di dirvi che se questo soggetto non si può trattare per le nostre scene con tutta la novità e bizzarria del dramma spagnuolo, è meglio rinunziarvi”. Verdi voleva un libretto che rispettasse la forza e l’originalità della situazione, messa in scena dallo spagnolo Gutiérrez. Azucena, per esempio, doveva conservare il suo “carattere strano e nuovo”. La zingara infanticida che uccide per sbaglio suo figlio e si ritrova poi a far da madre al trovatore Manrico, e cioè il secondo figlio del vecchio conte di Luna, era il il motore del dramma. “Parmi che le due grandi passioni di questa donna, amor filiale e amor materno, non vi siano più in tutta la loro potenza”, si lamentava con Cammarano. E poi, altro dettaglio, Verdi non voleva che il trovatore restasse ferito nel duello col suo rivale, il conte di Luna jr, il quale a sua volta verrà risparmiato in limine mortis dallo stesso Manrico, frenato da voce misteriosa. “Ha sì poco per lui, che se gli togliamo valore che cosa gli resta? Come potrebbe interessare Leonora sì alta di rango?”.

 

Alla fine, per fugare ogni dubbio, Verdi presentò a Cammarano il suo piano dettagliato per il trattamento del soggetto in quattro parti. L’aspetto oggi per noi più interessante in questo piano del compositore è la sua insistenza sul personaggio della gitana infanticida e assetata di vendetta. “Non fare Azucena demente. Abbattuta dalla fatica, dal dolore, dal terrore, dalla veglia, non può fare un discorso seguìto. I suoi sensi sono oppressi, ma non è pazza. Bisogna conservare fino alla fine le due grandi passioni di questa donna: l’amore per Manrique e la feroce sete di vendicar la madre. Morto Manrique, il sentimento della vendetta diviene gigante, e dice con esaltazione: Sì… egli era tuo fratello!… Stolto! Sei vendicata o madre!”

 

Così, adesso che l’Opera di Roma, sotto la direzione di Carlo Fuortes e Alessio Vlad, rimette in cartellone dopo sedici anni di assenza Il trovatore (fino al 10 marzo) con la direzione del giovane e talentuoso Jader Bignamini, la regia del catalano Alex Ollé di La Fura dels Baus,e la collaborazione dell’argentina Valentina Carrasco, le scenografie di Alfons Flores e un cast di tutto rispetto (per Manrico Stefano Secco, reduce dal Covent Garden, e il grandissimo Diego Cavazzin, che in proprio ha una sua vita tutta da romanzo, Tatiana Serjan e Vittoria Yeo per Leonora, Ekaterina Semenchuk e Silvia Betrami per Azucena, Simone Piazzola e Rodolfo Giugliani per il conte di Luna, e Carlo Cigni per Ferrando, Reut Ventorero per Ines Aleandro Mariani per Ruiz, e il coro dell’Opera diretto dal grande Roberto Gabbiani), lo spettatore che desideri interrogarsi sui segreti di fabbricazione di un capolavoro è servito.

 

E’ il librettista a scrivere per primo, ma è il compositore a intervenire sul libretto, a piegare le scene al senso complessivo che intende dare all’opera, a modulare l’espressività dei personaggi, la loro forza, la loro verosimiglianza. E poi in Verdi, che era un uomo di teatro, c’era anche il gusto delle raccomandazioni formali. Voleva un libretto innovativo, pieno di novità bizzarre. Al librettista aveva chiesto di evitare il coro iniziale, e Cammarano per accontentarlo inserì un coro all’inizio di ciascuna delle quattro parti. Alla fine però, lungi dall’essere un’innovativa “opera intera in un sol pezzo”, Il trovatore, a differenza del Rigoletto, dove la forma nuova e sperimentale era più solida, finì per risolversi in un’opera convenzionale, fondata su una successione di scene statiche. Il fatto è, come ricorda Giovanni Bietti nelle sue osservazioni sulla partitura, che Cammarano forse non era l’autore più indicato per quella rivoluzione. Tant’è che Verdi finì per comporre un’opera tradizionale, basata sulla drammaturgia già rodata vent’anni prima da Mercadante e Donizetti, con “la solita forma”, riconoscibile per ogni singola scena, e suddivisa in due momenti: il primo caratterizzato da un’aria cantabile (“Tacea la notte placida”, per esempio, aria di Leonora) e il secondo più mosso e dinamico (“Di tale amore”, sempre Leonora). La stessa forma si ritrova per il conte di Luna, lo spasimante respinto, il quale esordisce con il cantabile “Il balen del suo sorriso”, seguito dalla cabaletta “Per me ora fatale”, e naturalmente vale per Manrico, il trovatore misterioso e irresistibile, con la scena in cui canta “Ah sì ben mio”, seguito poi dalla celeberrima “Di quella pira l’orrendo fuoco”. Ogni volta tra i due momenti c’è un colpo di scena, un cambiamento repentino nello stato d’animo del protagonista, un’emozione nuova per il personaggio alla ribalta. Perché, ed è questa un’altra particolarità del Trovatore, la trama non è frutto dell’azione in scena, ma del racconto di fatti accaduti in passato o dell’attesa di situazioni a venire, e ciò ogni volta viene affidato ai protagonisti, che rivivono nelle loro parole sia i ricordi del passato, sia le aspettative future. Il che fra l’altro, come ha spiegato l’aiuto regista Valentina Carrasco, serve a dare verosimiglianza alla trama, “perché l’assurdità finisce per apparire incidentale, mentre le emozioni che provoca sono vere”.

 

In questo modo si spiega anche l’importanza delle parole sceniche di Cammarano, che agli occhi di Verdi possedeva l’indiscutibile qualità di sintetizzare in alcune parole chiave forti, cariche di energia, grondanti di significato, l’intero dramma e il suo svolgimento fatale, sfruttando per esempio alla perfezione il repertorio del discorso tutto fuoco e fiamme, col doppio registro del rogo vero e proprio, della pira, della vampa, dell’ossame del bambino “fumante ancor”, e dall’altro il registro della metafora della passione, col cuore in fiamme, l’amore ardente, il furore che divampa, il fuoco di sdegno e di gelosia…

 

Nel luglio del 1852, la stesura del libretto non era ancora del tutto terminata e Cammarano, l’indolente poeta napoletano, gravemente ammalato, d’improvviso morì. Appresa da una gazzetta di teatro, la notizia colpì Verdi come un fulmine. “E’ impossibile che ve ne descriva il mio profondo dolore”, commentò da Busseto il 5 agosto 1852 al fido Cesare De Sanctis, il quale gli propose subito come sostituto Leone Emanuele Bardare, giovane collaboratore di Cammarano, “che non cape in sé per la gioia di aver lavorato per Verdi”. Altro segreto di fabbricazione, sarà lo stesso Verdi a suggerire tutte le parole e i versi di “Stride la vampa! – la folla indomita / Corre a quel fuoco – lieta in sembianza”, la fantastica canzone di Azucena all’inizio della seconda parte, alla quale sarà affidato il racconto dell’antefatto, la morte della madre sul rogo, per l’accusa di stregoneria lanciata dal vecchio conte di Luna. E fu sempre Verdi a intervenire con tagli e ritocchi sui versi dell’opera, e su quelli del finale, abbreviandoli. Così finalmente completato dopo lunga gestazione il libretto nell’autunno del 1852, Il trovatore venne messo in scena a Roma, al Teatro Apollo, il 19 gennaio 1853. “Avrà sentito”, scriverà Verdi all’amica Clarina Maffei alla vigilia della prima, “sarebbe stato meglio che la compagnia fosse stata completa. Dicono che quest’opera sia troppo triste e che vi siano troppe morti. Ma infine nella vita tutto è morte! Cosa esiste?…”.

 

Verdi all’epoca non aveva ancora quarant’anni. Era un orso, un uomo schivo, molto severo eppure appassionato. Conosceva l’amore, la morte, il dolore, per aver patito sulla propria pelle la scomparsa nel giro di pochi mesi dei due figli bambini, e la morte per un’encefalite fulminante della prima moglie, Margherita Barezzi, l’allieva di musica conosciuta da ragazzo in casa del padre Antonio Barezzi, il mercante più ricco di Busseto, proprietario terriero, melomane convinto, flautista dilettante presidente della locale filarmonica, grande estimatore, protettore e mecenate del giovane organista, che finirà per sposarne la figlia. Esigente fino alla maniacalità, Verdi amava condurre vita appartata, geloso del contubernio con Giuseppina Strepponi, la cantante che sposerà solo nel 1859, e che ogni ogni giorno gli mandava lettere molto egoriferite, considerandosi la sua musa ispiratrice, la confidente, il solo giudice inappellabile, anzi, il suo “livello”. “Vedi? non hai il tuo povero livello in un angolo della stanza, rannicchiato su una poltrona che ti dica questo è bello, mago – questo no – Fermati – ripeti: questo è originale”, gli scriveva il 3 gennaio 1853, attribuendo il ritardo nell’ispirazione della Traviata alla propria assenza, mentre era causato dalle prove del Trovatore. “Or senza questo povero livello, Iddio ti castiga, facendoti aspettare e lambiccare il cervello, prima di aprirne le caselline e farne uscire le tue magnifiche idee musicali”.

 

Amore, morte, passioni e gelosia, vendetta e furore. Il trovatore, “il più assurdo e il più pazzo dei melodrammi, il più lacerato fra altezze vertiginose di appassionata disperazione e di sommaria brutalità”, come scrive Massimo Mila, resta una delle opere preferite dagli amanti della lirica e dagli appassionati del melodramma italiano. Lo stesso Verdi, perfettamente conscio del suo capolavoro, fu buon profeta: “Quando andrai nelle Indie e nell’interno dell’Africa, sentirai il Trovatore”, scrisse nel 1862 all’amico Opprandino Arrivabene. Tant’è che oggi nel mondo intero, dove l’Italia e la cultura italiana significano innanzitutto musica, opera, melodramma, e dove l’italiano è la parola in musica e soprattutto il fiume fluido, possente e rigoglioso di Verdi, col suo legato che nasce dal legato della nostra lingua parlata, Il trovatore, “il più eccelso culmine della bellezza” raggiunto “con un’immediatezza tutta meridionale”, come scrisse Bruno Barilli nel Paese del melodramma, continua a segnalare l’identità italiana. E volenti o nolenti, agli occhi del mondo, la quintessenza di quest’identità resta legata al dramma estremo, tutto fuoco e fiamme, passione, dolore, vendetta, e naturalmente al dramma dell’amore, puro, incoercibile, folle, sublime, disperato sino al sacrificio, all’autoannientamento, senza mediazioni né compromessi possibili, perché prigioniero sin dall’inizio di un vortice di emozioni incontrollabili e fatali.

 

Ora, la domanda è come si fa a metterlo in scena, oggi, questo dramma? Oggi che le passioni hanno vita grama, e l’amore non sembra aver più niente di metafisico e di esclusivo, e il triangolo impossibile tra il conte di Luna, Leonora, e Manrico, e cioè tra un baritono che vuole sposare un soprano, che però vuol andare a letto col tenore, il quale è prigioniero della brama di vendetta del contralto, rischia di non fare più breccia, visto che ci si accoppia senza vincoli, ci si lascia senza formalità, e nel mentre ci si tradisce senza sensi di colpa, passando serenamente da un letto all’altro senza duelli né spargimenti di sangue, Il trovatore potrebbe essere irrappresentabile. Ecco allora che l’idea di ambientare il dramma nel contesto di una guerra, e di una guerra civile, è una bella trovata di Alex Ollé il regista de La Fura dels Baus, per questa coproduzione dell’Opera nazionale di Amsterdam e dell’Opéra di Parigi. “Perché quando le situazioni si spingono al limite, la gente diventa un po’ pazza”, ha spiegato il regista catalano alla vigilia della prima. Ma quale guerra? La guerra medievale, con streghe e roghi, la guerra romantica, con duelli ed eroi schiavi d’amore, in balia dell’onore e pronti al sacrificio? In realtà, nello spettacolo al Teatro Costanzi di Roma, che in questi giorni ripropone quello di Amsterdam e di Parigi, il riferimento è alla Prima guerra mondiale, con la sua simbologia mista, antica e moderna al tempo stesso, dove i carri armati si confondono con i cavalli, e le maschere a gas con le corazze militari, e le pistole prendono il posto delle spade. La scenografia vuole essere dinamica, piegata al ritmo dell’opera, ma simbolica e mai realistica, metafisica e astratta, anziché veristica e concreta. Ventiquattro parallelepipedi di altezze variabili, mossi a mano, salgono e scendono dal palcoscenico, scomparendo nella cavea o nel soffitto, per indicare ora il palazzo dell’Aljafería a Saragozza, ora il diruto abituro dei gitani fra le montagne della Biscaglia, ora l’accampamento militare con soldati e balestrieri, ora il luogo di ritiro, sia esso il convento o il cimitero, e infine l’orrido carcere dove giace Azucena con accanto il figlio Manrico, e dove entreranno Leonora e il conte di Luna col loro corteo per la scena finale.

 

Così, nel vedere salire e scendere i parallelepipedi, e le scene cambiare luci, prospettiva e colore a seconda del racconto, senza distrarsi con nessun altro elemento decorativo, il pubblico romano è libero di lasciar spazio all’immaginazione, riempiendo i vuoti e colmando le incongruenze del libretto, dimenticando subito qualche inutile superfetazione (come la fucilazione di quattro soldati con i fucili puntati sulla platea), per sognare l’impossibile e ritrovare la più vera verità della comune umanità, snaturata dalla passione e redenta dalla rinuncia e dal dolore, che sta al centro del miracolo di Verdi.

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