
Il talento non ha sesso, il resto è noia. Intervista vista Castello Sforzesco
Carolina Castiglioni, nepo-chic della moda, sul debutto a Pitti Uomo, l’obsolescenza delle sfilate (“i capi vanno visti da vicino e toccati”) e certe assurde differenziazioni di genere
Quando, nella sua bella casa milanese con vista sul Castello Sforzesco, tutta a blocchi di colore in contrasto («non ne potevo più del design anni Cinquanta tutto pastelli, ottone e rotondità, ora mi piace l’estetica dell’arredo anni Settanta: più forte, più decisa»), si prova allo specchio una mise per uscire, è sorvegliata a vista dai due figli: Filippo, dodici anni, e Margherita, dieci. “È lui a dare i giudizi più severi, ma anche più giusti e sensati, mi trovano sempre d’accordo. Marghe, invece, è persa dietro una mania di fru-fru, nastrini, fiocchetti, tulle e glitter: mia madre le ha comprato, per l’inaugurazione delle vetrine di Banner con i miei abiti, una gonnella inguardabile che ha voluto a tutti i costi: quasi mi vergognavo a portarla con me”, sorride bonaria. Ma si capisce che lo ha pensato per davvero.
A poco più di quarant’anni Carolina Castiglioni, figlia di Gianni e Consuelo Castiglioni, fondatori nel 1994 del brand Marni - di cui Consuelo è stata direttrice artistica fino alla cessione totale al gruppo OTB nel 2016 – appartiene a quel genere di dinastie che, nate dall’alta borghesia illuminata e operosa, assumono con il tempo quell’allure aristocratica in cui il giudizio estetico è definitivo e la genetica diventa benevola al punto di farle splendere senza un filo di trucco, torreggiare sugli altri pur indossando scarpe basse e mostrare una leggiadra ritrosia che nasconde invece un’assoluta chiarezza d’intenti e il senso di appartenenza. E’ rasserenante il tono in cui Carolina riconosce l’essere una nepo-baby come portatore di vantaggi e non di preconcetti: “Iniziare a lavorare con la mia famiglia è stato fisiologico. Ho iniziato a lavorare a ventitré anni nel retail, poi come buyer, infine come direttore del sito e dei progetti speciali di Marni. Mia madre mi ha insegnato a pensare senza schemi e papà mi ha sempre incoraggiata: senza loro, non so se avrei avuto la forza di creare la mia linea nel 2018, Plan C, proprio con mio padre e mio fratello Giovanni. Mi sono diplomata alla Marangoni in fashion business: se proprio mi chiedesse di definirmi, direi “imprenditrice” più che “designer”: a me piacciono i numeri, far crescere realtà piccole, farle diventare più visibili, ecco. La gente della moda ci conosce, ma non le nascondo che ambirei a un pubblico più vasto”.
Da cigno dell’area ZTL che necessiterebbe in un nuovo Truman Capote, ci incontriamo nel suo ufficio in via Visconti di Modrone - potrebbe essere di Caccia Dominioni, ma non ne è sicura - che era già stato il laboratorio della bisnonna, a sua volta titolare di quella che sarebbe diventata la CiwiFurs, azienda italiana specializzata nella produzione di pellicce per brand di lusso come Fendi, Prada, Dior e Louis Vuitton, quando volpi e visoni non era considerati peccati imperdonabile ma materie signorili per capi signorili. E’ molto emozionata: per la prima volta, l’undici giugno a Pitti Uomo presenterà la prima linea maschile di Plan C, un nome che sta per “Piano Carolina”, “Piano Castiglioni”, ma visto che si tratta comunque di un family business, rappresenta la terza realtà commerciale dopo CiwiFurs e Marni. È un progetto di moda e altro che un tempo si sarebbe detto multidisciplinare, ossessione di Carolina che pensa alla moda come a un campo dove s’intrecciano molteplici sguardi e saperi. S’illumina quando le diciamo di ricordarci che già per il Marni materno lei aveva fondato il magazine multimediale Anticamera, sfogliabile solo online: una sua creazione quando si assunse la responsabilità di curare il sito web iniziale del brand. Tornando al fashion critic in erba Filippo, le è servito come ispirazione o le è stato un censore per il suo debutto nell’abbigliamento per uomo? «No no, gli è piaciuta. Del resto, era giunto il momento di farla, come un’evoluzione organica e consequenziale di tutto il mio lavoro, che è concentrato più su uno spirito maschile trasferito alla donna; quindi, è arrivata in un certo senso l’idea di una sorta di restituzione. Ho disegnato tutto da sola, cogliendo quel desiderio di uniforme e di ordine bizzarro che cerco anche quando devo vestirmi per me stessa: ho una passione per il Giappone, per esempio, e il rigore rivisitato della loro estetica mi fa letteralmente impazzire. Quindi ho pescato dal mio archivio capi femminili eli ho adattati al corpo maschile. E se vuole sapere una cosa buffa, quando ho cominciato le prove con un modello alto alto e magro magro, stava benissimo con tutti i miei capi da donna: insomma, è stato facile».
Internazionale per aspetto evocazione al vagabondaggio di lusso, è bravissima nel creare un linguaggio internazionale partendo da elementi molto intimi: «Nella vita di tutti i giorni solita scattare moltissime fotografie, ad esempio quando sono in vacanza con i miei figli. Questi scatti, che affollano il mio archivio privato, si trasformano poi in stampe. Nel progetto “Ritratti”, per esempio, presentato al Salone del Mobile del 2023, le foto di famiglia sono diventate sculture e tappeti, mentre i simboli di Plan C – non li chiami loghi - sono due pupazzetti disegnati da Filippo e Marghe, che si chiamano “Bianca” e “Pili”. Uno scatto può diventare il disegno di un pullover, poi magari un ricamo in paillettes su una gonna».
Come molte persone che la sanno lunga ma senza farlo pesare, Carolina rintuzza con infinita gentilezza ogni possibile stereotipo di nuovo conio, tipo l’esaltazione del genderless, il fatto che i giovani maschi abbraccino un nuovo modello di virilità, o che gli umani muniti di pene si siano evoluti nel gusto: «Guardi, ho amici coetanei che si vestono in maniera tediosissima e conoscenti molto più adulti di me che si sbizzarriscono, da veri dandy, unendo fantasie diverse. E non è che anche le donne che frequento mi sembrano tanto originali: vedo ancora diffusa, diffusissima la mania per il logo, per la borsa firmata, per la scarpa di riconoscibilissimo autore. Il punto è scegliere di vestirsi per come l’abito ci rappresenta: a unirli è il gusto per gli accostamenti colore audaci, per un maschio che si sente anticonformista e indipendente, non si lascia influenzare dalle tendenze e sceglie capi da indossare stagione dopo stagione: ho curato personalmente la scelta dei tessuti, dai popeline di cotone in tinta unita, a righe, in toni di verde giada, azzurro, ma anche materiali tecnici come un tessuto spalmato resistente all'acqua. Non è una moda legata all’età, ma a una questione di community, di persone che vedono un po’ il mondo come lo vedo io». E come lo vede, questo mondo? «Creativo, divertente, intelligente, curioso. E coerente. Ho già detto a una sua collega che essere coerenti con sé stessi ti permette di esprimere e fare le cose che provengono dal tuo io profondo, e credo che questo si percepisca anche da chi ti sta attorno».
Sempre nella pratica dell’ars combinatoria di differenti stimoli che fa tanto intellò, anche stavolta Plan C presenterà un’installazione realizzata da un artista, Duccio Maria Gambi: «Realizzerà manichini che sono opere d’arte da osservare sotto luci ad hoc nel buio della Sala delle Grotte di Pitti». Sulla differenza tra la moda disegnata da donne e la moda disegnata da uomini, rifila il consueto giudizio soave e distruttivo: «Certo che c’è. Eccome. Quando disegno le collezioni femminili parto da me, dal mio corpo, da come mi stanno le cose che disegno. E le dirò di più: non credo che le donne, nella moda, siano così sottovalutate come dicono. Pensi a Rei Kawakubo per Comme des Garçons, a Miuccia Prada, a Phoebe Philo, a Coco Chanel, a Elsa Schiaparelli… Ecco: è il talento, a non avere sesso. Ma sicuramente c’è un approccio diverso». Scusi, Carolina: si prenderà pure come campione dei suoi prototipi ma non è che lei, filiforme e longilinea com’è, abiti dentro un’anatomia mediterranea… Non è che ha fatto lo stesso ragionamento anche per l’uomo? «Ma no, anzi. Se c’è qualcosa che mi irrita è la leggenda metropolitana che i miei abiti siano adatti solo alle persone alte: non è assolutamente vero, tanto che il mercato dove ho più. Successo – e anche le mie boutique monomarca – è proprio il Giappone, dove non mi risulta che l’altezza sia superiore a quella di altri popoli». È una questione di proporzioni? «È una questione di attitudine». Perché non ha mai scelto di fare un défilé per Plan C? «Sta scherzando, spero. La sfilata oggi non ha più senso: è molto più importante vedere da vicino i capi, toccarli, guardarli accanto a opere d’arte realizzate per l’occasione è un concetto molto moderno, ma anche molto umano. E l’umanità oggi è un dato importante, senza sprecare inutili montagne di denaro per spettacoli meravigliosi in città bellissime con défilé che, alla fine, non sono altro che veicoli pubblicitari e instagrammabili. Ecco, anche il discorso sulla sostenibilità, di cui tanto si parla nella moda di oggi, per me si concretizza nel fare solo due collezioni all’anno, e non sei o otto. Con una collezione ben strutturata puoi coprire benissimo sei mesi di vendita, e assicurare vari drop durante la stagione. Anzi, mi piace che la gente possa conservare i miei abiti indossando quelli nuovi con quelli vecchi. Se cambiassi completamente, non sarebbe possibile farlo». Per essere ritrosa, Carolina sa quando smettere di esserlo. E quando ricominciare. Carolina, si definirebbe una persona romantica? «Certamente. Ma non credo sia giusto dimostrarlo a tutti».