Christian Dior by John Galliano, collezione “Marquise Masquée”, 1998 (Dior Heritage collection) 

vestirsi oltre lo specchio

“L'arte della moda”, a Forlì in mostra duecento anni di rivoluzioni attraverso il gioco tra abiti, artisti e stile 

Maurizio Crippa

L’arte e la moda che si specchiano l’una nell’altra e che raccontano una storia precisa, che è la storia del cambiamento delle nostre società

Gli occhi della dama sono tondi e acuti come puntaspilli, non v’è dubbio che famigliari e contemporanei l’avrebbero riconosciuta da quelli, anche senza tutto il resto intorno. Hayez ci sapeva fare. Però rimane l’impressione, furtiva, che quel “tutto il resto” per Hayez contasse eccome, e non solo il nome: Sarah Louise Strachan Ruffo di Motta e Bagnara, vale a dire la famiglia committente, gente da haute couture; ma soprattutto l’abito, quelle ampie trine e balze color perla, quello scialle nero abbandonato sul rosso della spalliera. E i boccoli alla moda romantica. Sarebbe stato sufficiente l’abito, anche senza il nome, per varcare la porta dell’arte e della storia. La moda e l’arte, non il nome. Maria Antonietta “en Gaulle” la riconosciamo comunque, anche prima di rivederla condotta al patibolo in una vestina candida che sa già di Direttorio (dettare stile anche dalla ghigliottina, voilà). Ma dietro l’inchino dei pennelli di Élisabeth-Louise Vigée Le Brun, viene naturale pensare che se ci ricordiamo di quel ritratto è per il cappello di paglia piumato di tortora (ma non lo aveva già indossato Madame du Barry?), per l’abito bianco di tulle, per i fiori ton sur ton e per quel nuovo modo di portare i capelli. E’ questo che varca il tempo, molto più del nome di una regina. E il volto di quella signora già autunnale, “all’uscita del labirinto”, potrebbe nemmeno esserci, così come non è tramandato il nome. Resta soltanto quel lucente abito color cobalto, a balze, e quel grazioso cappellino che George van der Mijn ha immortalato indosso alla sua involontaria e sconosciuta mannequin. La moda, l’abbigliamento, i capi di vestiario e gli oggetti personali sono fin dall’antichità il modo con cui donne e uomini vogliono occupare lo spazio attorno a sé, disegnare e marcare il loro stare nel mondo, e per secoli nei ritratti sono stati un agognato lasciapassare per la storia. Dopo tanto tempo, mentre sopravvive lo splendore di quei tessuti e di quei colori, la maestria di quei tagli e ricami, è straordinario accorgersi che il lasciapassare per la storia, attraverso l’arte, l’ha ottenuto la moda, molto più dei suoi provvisori interpreti e indossatori. Del resto anche il Signor Ewan Mackenzie, ritratto nel 1902 da Luigi De Servi a Genova, sarebbe per noi uno sconosciuto se non per l’abito di lino bianco, la cravatta a ricami, il sigaro e il pince-nez: i segni di una regalità borghese che oltrepassa le biografie. E in fondo anche quella “Giovane sposa” in tunica blu su sfondo di città metafisica, dipinta a inizio degli anni Venti da Ubaldo Oppi, potrebbe non essere esistita: l’arte ci ha tramandato soltanto un abito e l’esprit du temps.

   

Ma fu durante quei secoli “che i suddetti personaggi vissero e disputarono”, per citare il celebre explicit di uno che di storia, bellezza e abiti (di scena) si intendeva: “Buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri, ora sono tutti uguali”.

   

Si intitola “L’arte della moda”, con un sottotitolo pieno di suggestioni, “L’età dei sogni e delle rivoluzioni - 1789-1968”, la mostra di grande impegno e di gran riuscita appena inaugurata a Forlì, al Museo civico di San Domenico, imponente recupero del medievale convento dei domenicani (del resto, esiste qualcosa di più elegante del loro abito bianco e nero?) e di altri edifici storici, magnificamente ripristinati nel 2005 dal Comune di Forlì e dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì, che da sempre ne gestisce le esposizioni. 

 

Consideriamo spesso la moda (oggi si dice “il sistema della moda”) come il luogo dell’effimero per antonomasia. Invece delle immagini del tempo passato, delle figure che l’hanno abitato, rimangono la moda e l’arte, l’arte e la moda che si specchiano l’una nell’altra e che raccontano una storia precisa, che è la storia del cambiamento delle nostre società. “L’abito che modella, nasconde, dissimula o promette il corpo. L’abito come segno di potere, di ricchezza di riconoscimento, la moda come opera e riconoscimento”, scrive nel poderoso catalogo (Dario Cimorelli editore) il direttore della mostra – e storica anima delle esposizioni, a cadenza annuale, della Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì – Gianfranco Brunelli. Che inquadra, dal punto di vista della storia e del suo più ampio significato politico (politologo è l’altra occupazione di Brunelli), il nocciolo dei due secoli del percorso – i secoli tra due rivoluzioni, appunto – e cioè che “moda e modernità hanno la stessa radice”. E che, è la seconda parte del percorso, “mai come nel Novecento le vicende della moda si sono confuse con i temi della politica, del cambiamento sociale, della cultura, della ribellione”. La lunga passeggiata (trecento opere tra quadri, sculture, abiti, calzature e gioielli) si snoda come un giardino di delizie ed è pensata per la soddisfazione di un ampio pubblico generalista, che ormai da oltre dieci anni decretato il successo dei Musei di San Domenico e dell’austera Forlì nel grande circuito del turismo culturale italiano. Ma vi si coglie, soprattutto, un lungo lavoro di inquadramento storico e sociale, di expertise specialistica sia per la parte di quadreria che per quella propriamente di storia della moda. E’ il risultato raggiunto da un team agguerrito: la storica dell’arte Cristina Acidini, lo specialista di arti decorative Enrico Colle, lo storico dell’arte e tra i maggiori specialisti del nostro Ottocento Fernando Mazzocca e la storica della moda, giornalista e curatrice dell’inserto Moda del Foglio, Fabiana Giacomotti.

 

Ma prima delle riflessioni viene il colpo d’occhio del complesso di San Domenico, e il clamoroso incipit della mostra: nello spazio monumentale dell’antica chiesa, i cristalli di due lunghissime teche illuminano due sfilate di abiti del Settecento. Marsine e gilet ricamati maschili, broccati e fili d’oro di Francia o di Venezia, robe à la francaise, o andrienne, di manifattura parigina o fiorentina per le dame: i segni distintivi di un secolo che aveva il culto delle apparenze e delle distanze di classe. C’è anche un preziosissimo e raro “zamberlucco” veneziano in taffetas di seta, l’ampia veste da camera derivata dall’abito dei mercanti (“banyan”) d’oriente che, come suggerisce Fabiana Giacomotti, è uno dei capi cruciali in mostra: il “banyan”, o “mantua” (mantella) o zamberlucco diviene presto, nelle case della nuova borghesia, un comodo abito unisex per il padrone e la padrona, ma presto troverà la via per uscire nelle calli umide di Venezia, influenzando e così modificando per lungo tempo il gusto e la pratica dell’abbigliamento. Tutti insieme, questi testimoni dell’Ancien régime sfilano verso un grandioso abito da nobildonna, in fondo alla sala, di un opalescente verde acqua, con un corpetto strizzato all’inverosimile nel rapporto con il resto della figura-architettura sostenuta dal grande “panier” – o guardianfante, o cul de Paris, o polonaise e poi crinolina a gabbia e tutti gli altri nomi, elenca Acidini, che assumeranno nei secoli i foundation garmentutilizzati, o imposti, dalle donne per “supplir con industria dove manchi natura”. Ma non è, questo, un abito antico: è invece un omaggio, “A poetic Tribute to Marchesa Casati Collection” firmato da John Galliano per Christian Dior e realizzato nel 1998. Perché la moda e la creatività, quando sconfinano nell’arte, non hanno tempo, e fanno allegramente avanti e indietro nei secoli.

 

Ma secoli, appunto. Due interi, e che secoli. La mostra principia, nel titolo, dal 1789. Ma l’ouverture nell’Ancien régime è necessaria, perché la  Rivoluzione francese ribalterà, letteralmente, anche il concetto di eleganza e la stessa percezione del corpo, soprattutto femminile. Come spiega la storica Acidini, da quei volumi enormi e costringenti attraverso cui la donna “occupava” il suo spazio, l’unico suo, che si ingrandiva a seconda dell’importanza sociale e dentro cui restava imprigionata, strizzata nel suo busto e amplificata nella figura retorica dei fianchi, la nuova moda del Direttorio e poi dell’Impero porta a una liberazione non solo delle forme. Il corpo viene d’un tratto liberata, la semplicità lineare delle tuniche, nell’ispirazione dei modelli classici che invadono la pittura e la scultura, diventa morbidezza che allude a un corpo liberato (o quasi). La veste diventa specchio di un’ideale di cultura e di vita finalmente emancipata. Forse la miglior immagine di libertà che la Rivoluzione ci abbia donato – mentre volavano le teste e il Primo Console poi imperatore incendiava l’Europa – è stata proprio nell’abbigliamento femminile. Durerà lo spazio di un decennio, come un sogno: il sogno che travolge Bruno Ganz davanti alla “Marchesa von O” addormentata, nella magnifica restituzione cinematografica dello stile Impero filmata da Eric Romher.

 

Ma il vecchio mondo era tramontato per sempre. A differenza dell’aristocrazia che non aveva mai avuto bisogno della moda per distinguersi, la borghesia protagonista del nuovo secolo aveva tutto da imparare, dal modo di vestirsi a quello di comportarsi in pubblico, cosa leggere e come stare a tavola, come spiega Giacomotti: la moda diviene “uno degli strumenti più efficaci per rappresentare se stessa e la propria scalata sociale”. A poco a poco gli uomini perdono colore, il nero diventa la divisa del potere e del denaro, i maschi monocromatici possono al massimo fare da sfondo alla “Più bella donna di Parigi” di James Tissot (1883). Ma alle donne resta per buona parte dell’Ottocento lo spazio di un recupero della scena affidato solo agli splendori della sartoria, e più tardi dei primi esperimenti industriali. I fianchi ritornano larghi, i cappelli e i décolleté ritmano le stagioni e le stagioni della vita, una discreta ma micidiale divisione tra fanciulle da marito e madri e custodi del focolare porta con sé un sottile linguaggio fatto anche di colori e di tessuti.

 

E l’arte è maestra e specchio di tutta questa complessa codificazione sociale. Non a caso sono i secoli, come scrive lo storico dell’arte Mazzocca, che si possono definire “del ritratto”. Ma se il rapporto tra costruzione d’identità di un’intera classe sociale e arte è stato mille volte indagato, il contributo della moda lo è meno frequentemente, e la fastosità e la minuzia delle manifatture italiane, francesi, inglesi, il raffinato lavoro di ricerca e di conoscenza del collezionismo da parte dei curatori, l’attenzione filologica del restauro preparatorio all’esposizione raccontano molto di una vita quotidiani che invece l’arte ferma nell’istante.

 

Coi mutamenti sociali (e altre piccole rivoluzioni di cui qui si intuisce il peso), avviene poi un passaggio che porta al Novecento. A poco a poco, a partire dalle élite, la donna non è più solo un corpo da vestire, occultare o esibire a seconda dei momenti e delle convenienze; diventa sempre più ispiratrice della propria immagine pubblica, non cerca più il confortante specchio del ritratto, ma lo determina. Viene l’epoca delle “fragili muse” della Belle époque, vengono le Avanguardie che inventano, spesso copiano, una moda sempre più estroversa e scelta dalle donne. Balla e Boccioni si divertono a immaginare astrazioni futuriste, uomini e donne si trasformano in mannequin e arte allo stesso tempo. Nel 1930 Paulo Ghiglia firma un ritratto della contessa Mara Braida Carnevale che indossa l’abito prodotto nello stesso anno dalla Storia Ventura. Gli abiti da sera e le geometrie di Chanel, le tuniche di Mariano Fortuny, sono arte in sé, non attendono l’approvazione ma giustificano chi li indossa. Passa la guerra, il “Ritratto di Ginevra Colonna” di Gregorio Sciltian, 1945, parla già di nuova emancipazione e di rombanti anni Cinquanta. Imparagonabile con l’idea di donna che solo cento anni prima emanava dalla pensosa borghese in abito lungo che sbircia da una persiana di Silvestro Lega.

 

Ci si avvicina alla altra grande rivoluzione dei costumi e degli abiti, la mostra dice 1968, ma tutto parte già prima, nella grande trasformazione degli anni Sessanta. In cui l’alta moda si emancipa definitivamente, ma si fa in breve anche industria e “sistema”, diventa arte di sé stessa e per sé stessa, in un gioco di rimandi e riferimenti sempre più stretto tra artisti, creatori, pubblico. E il corpo soprattutto femminile, per gli uomini ci vorrà ancora un po’, si prende tutto quello che le era mancato. Diventa ispirazione, creazione. I rettangoli colorati di Mondrian diventano creazioni di Yves Saint-Laurent, Mila Schoen trasforma in tunica i tagli di Fontana e il metallo in abiti luccicanti, Yamamoto “omaggia” Mirò in giacche colorate, il 1968 si annuncia con gli abiti della “Linea Alluminio” di Germana Marucelli. L’arte e la moda non si specchiano più, si muovono insieme.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"