America Ferrera in Quattro amiche e un paio di jeans, film del 2005 diretto da Ken Kwapis 

il foglio della MODA

Nessun altro indumento come i jeans racconta la storia del suo proprietario

Giorgia Motta

È forse il capo d'abbigliamento più iconico e influente mai creato. Porta inscritto fra le pieghe, sul cavallo o attorno alle tasche lo stile di vita, i gusti, le abitudini quotidiane di chi lo indossa. Intanto Levi’s celebra i centocinquant’anni di storia

Un paio di jeans indossato come si deve equivale a un codice di Hammurabi personale. Nessun altro capo come questo porta infatti inscritto fra le pieghe, sul cavallo o attorno alle tasche lo stile di vita, i gusti, le abitudini quotidiane di chi lo indossa. Fate un salto al Vittoriano a osservare i jeans di Giuseppe Garibaldi e, oltre a poter valutare la sua statura, che da documenti del primo imbarco risulta pari a circa un metro e settanta ma da quei pantaloni sembrerebbe un buon sette-otto centimetri di meno, potrete intuire perfino come montasse a cavallo. E che avesse le gambe arcuate. Qualche anno fa, chi scrive ebbe modo di esaminare, con guanti e mascherina regolamentari, il primo paio di jeans dell’archivio Levi’s, arrivato da san Francisco per l’ammirazione degli studiosi, da cui si poteva desumere non solo che il loro proprietario fosse un cercatore d’oro o che comunque trascorresse molto tempo in ginocchio, ma che li avesse anche ceduti, o comprati, da un uomo più alto di lui che faceva lo stesso mestiere.

 

I punti di usura, comprese le tasche pressoché sfondate per tutti gli utensili che avevano amorevolmente accolto, raccontavano una, anzi più storie di speranza, di sogno di riscatto, di ideali di riuscita. Insomma, ha molto senso che, volendo festeggiare i propri centocinquant’anni di storia, come sta facendo da queste settimane fino al 20 maggio, data ufficiale del brevetto, datato 1873, Levi’s abbia deciso di impostare il proprio marketing e la propria comunicazione lungo l’asse strategico della narrativa. “The greatest story ever worn” , declinazione vestimentaria del sottotitolo che solitamente accompagna la Bibbia (“the greatest story ever told”, la più grande storia mai raccontata) è il più interessante pay off che ci sia capitato di leggere da un bel pezzo. E se le celebrazioni in corso negli Stati Uniti prevedono fantastiche cacce al tesoro modello Old West, con tasche imbottite di lingotti d’oro (in Italia i festeggiamenti saranno più contenuti, o almeno si fa per dire, perché il testimonial sarà Morgan), non di meno la ricorrenza sarà una bella occasione per riflettere sul valore, la potenza e la persistenza di questa che, fra le icone del nostro quotidiano, occupa senza dubbio uno dei primi posti.

 

Nessuno, da Garibaldi a Gianni Agnelli a Bruce Springsteen a Steve Jobs a Michelle Williams che nei “Fabelmans” interpreta la madre di Steven Spielberg ed è sempre in jeans, fiction-uguale-realtà, si è mai sottratto al fascino di questo capo. In Italia, i Levi’s arrivarono nel 1967, certificati e con tanto di insegna, ma in realtà giravano in forme spurie da un ventennio, ed erano già ricercatissimi: le nostre madri correvano al mercatino di Forte dei Marmi per procurarsene un paio, fra la bancarelle “dei soldati americani” come si definivano in gergo. Indossati sotto il blazer, furono il simbolo della Milano da bere, così come trent’anni prima lo erano stati degli “americani a Roma”.

 

Primo indumento occidentale unisex ancor prima che il termine entrasse a far parte della sociologia culturale (in realtà, esistono foto di donne contadine e cercatrici d’oro che li portano sotto il grembiule mezzo secolo prima che Marilyn Monroe li facesse diventare abbigliamento sexy e la Levi’s stessa organizzasse presentazioni in pompa magna a Parigi nel 1947, lo stesso anno del debutto del New Look di Christian Dior), i jeans sono stati “risignificati” decine di volte ma – ed è questa la grande differenza rispetto alle tante operazioni di rivisitazione e rilancio guidate dal marketing di questi anni – questa evoluzione, questi cambi sono avvenuti spontaneamente. Community oriented, per così dire. E proprio per questo i jeans hanno cambiato taglio (dritti, larghi, vita alta, bassa, bootcut, eccetera), stile (dalle rive dello Yukon agli atelier di avenue Montaigne e Bond Street), genere e modello mantenendo inalterata la propria matrice di giovinezza, diversità, allure sexy.

 

Questo ha fatto sì che in un secolo e mezzo, Levi’s diventasse il capo d’abbigliamento più iconico e influente mai creato. La storia del 501, il suo modello identificativo, quasi un marchio a sé, ha inizio come molti sanno con con il sarto Jacob Davis e la sua storica invenzione dei rivetti in rame sui pantaloni da lavoro in tela. Un successo immediato che spinge Davis a presentare la sua “waist overall” rivettata al fornitore di tessuti Levi Strauss. I due lavorano insieme a un capo in denim e tela d’anatra che brevettano nel 1873 lanciando ufficialmente quelli che sarebbero diventati noti come i jeans 501 e che no, non hanno sempre goduto del successo eclatante che si crede. Anche la famiglia Levi dovette infatti assoggettarsi alle richieste del mercato, assecondarlo, anticiparlo. Dopo un periodo di popolarità, nel 1918 i profitti di Levi Strauss & Co. avevano infatti toccato i minimi storici. I fratelli Stern, nipoti di Levi Strauss, e il nuovo responsabile di produzione Milton Grunbaum, si concentrarono allora nella durevolezza del jeans seguendo le indicazioni dei clienti. Per loro, e per seguire l’evoluzione della moda maschile, vennero aggiunti per esempio i passanti per cintura e rivisto il taglio.

Ma è negli anni Trenta che nell’immaginario comune si fissa il binomio jeans-west, complice l’immagine dei cowboys e i riders dei rodei e l’astuzia di Levi’s di usarla nelle proprie pubblicità. “Vogue”, che all’epoca è ancora il mensile dell’élite wasp, pubblica un articolo che consiglia i 501 alle donne che trascorrono le vacanze nei dude ranch, nuova tendenza dell’epoca ripresa anche da George Cukor nel suo blockbuster “Donne”, anno 1939, che è anche lo stesso in cui John Wayne indossa un paio di 501 Original risvoltati nel film “Ombre Rosse”, inaugurando un lungo rapporto tra il brand e Hollywood. È dopo la Seconda Guerra Mondiale, però, che il modello, e in particolare il Red Tag, si affermano realmente. Non più semplice abbigliamento da lavoro, questi pantaloni con gamba più slim e senza cinturino posteriore né bottoni per agganciare le bretelle, iniziano a essere indossati come capo casual. Nel loro secondo grande cambio di stile, diventano il simbolo cool della controcultura grazie a Marlon Brando che li indossa nel film del 1953 “Il Selvaggio” e della nonchalance sexy e vincente (il manifesto de “Il gigante”, con James Dean, tuttora replicato al maschile e al femminile dai patiti del citazionismo). E quindi, nei Sessanta, Woodstock, i cortei dei movimenti per i diritti civili e delle proteste per la guerra del Viet Nam.

 

Episodi bellissimi, che Levi’s sottolinea nella comunicazione di queste settimane e a ragione. Quello su cui però varrebbe la pena soffermarsi sono gli aspetti meno noti della passione, del desiderio di “Levi’s original” che traspare dalle lettere, dai messaggi, dalle comunicazioni ricevute dagli headquarter di san Francisco negli ultimi decenni, fra le quali spiccano le lettere dei primi consumatori russi che con la perestrojka entravano finalmente in possesso dei loro primi jeans ufficiali, cioè non acquistati al mercato nero commentano con meraviglia e gratitudine la “morbidezza” di quella tela che immaginavano rigida e ben poco confortevole. Nel 1999, Time proclama il jeans “capo d’abbigliamento del XX secolo” dalla rivista Time: sono gli anni in cui, dopo le incursioni fra gli Ottanta e i Novanta di Calvin Klein, anche la couture adotta definitivamente non solo il denim nelle sue creazioni, vedi gli abiti da sera di Vivienne Westwood o Moschino, ma il jeans stesso come capo da passerella, non più riservato alle proposte delle seconde linee. Il periodo immediatamente post pandemico, con l’ormai celebre sfilata “Milano”, segna infatti il rapporto fra Levi’s e Valentino. Ma se per la ricorrenza del centocinquantenario sono state realizzate due nuove versioni del 501, da uomo e da donna, come la storia evolutiva di questo capo dimostra che le sue variazioni possono essere considerate e valutate solo sul lungo periodo. Solo affiancando tutti i modelli, un anno dopo l’altro, si può cogliere la radicale trasformazione del 501 dal 1873 del debutto ufficiale. E’ il segreto che tutti i grandi brand di oggi perseguono: lavorare al costante miglioramento del classico. La rivoluzione senza parere.

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