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il foglio della moda

Prodotto pride. Basta con la moda come bandiera ideologica

Giovanni Audiffredi

Avanza un drappello di firme molto interessanti che, oltre a realizzare (in incognito) i capi per i brand dell’inclusione-diversità, ambiscono a vestire gli uomini senza doversi schierare per forza. Sono tanti

L’ultima variante del virus, che ha colpito l’identità maschile del vestire, si abbatte sul linguaggio. Non è un sofismo, o un’ennesima declinazione del tema dello schwa, ma un rilevante cortocircuito al sistema neurale della comunicazione. La parola è espressione dell’identità e se, da imprenditori della moda, si sceglie di dichiarare: “Noi non siamo moda”, si lancia un messaggio forte. Al momento, lo sta pronunciando un numero non irrilevante di produttori e stakeholder che si ritrovano a Pitti Uomo, a Firenze.

 

Se il ritmo dei tempi che il termine moda contiene si traduce in riflessioni culturali sull’indirizzo valoriale della società, se diventa sperimentazione idealistica attraverso la connessione con realtà virtuali, di matrice gaming o Meta-orientend, se la nozione di fluidità e di inclusività diventano l’ossatura di un’ideologia e non più il calibro che misura la qualità della convivenza, ecco che allora si prospetta una separazione di intenti e di obiettivi. Di carriere, per dire. Non a tutti piace l’idea di dover produrre non camicie e pantaloni, ma  bandiere ideologiche. “Non mi stupisce che in tanti dichiarino di “non essere moda”. E non credo sia per una provocazione semantica”, osserva Claudio Marenzi, presidente di Pitti Immagine e patron di Herno: “Normalità sembra una brutta parola, da maneggiare con cura, perché suona come l’opposto di diversità: ma non è affatto così. Nella moda tutti cercano di conquistare e interagire con una propria community. La più grande è senza dubbio quella di chi cerca abbigliamento semplicemente per avere uno stile ragionevole più che ragionato. Il mondo del Pitti è la fiera delle collezioni che non innescano tendenza nel senso dell’innovazione perturbante”.   

 

Siamo dunque a un bivio, che in tempi più economicamente sostenibili è stato negato con formule ambigue: ora, invece, sostenere che una collezione è “prodotto” non è più un’offesa. Da una parte girano le maison del fashion luxury e tutti coloro che stimano di avere le stesse opportunità di azione marketing e investimento in forme di patrimonio culturale e sofisticata messaggistica di accompagnamento. Dall’altra ci sono i brand che ragionano sul prodotto di abbigliamento maschile in quanto tale, senza pretendere che una giacca sia il riflesso di una nuova filosofia esistenziale. Tutto questo era già in essere, ma anche in questo caso la pandemia ha fatto da carburante fossile ebbro di ottani per un’accelerazione chiarificatrice. 

 

“Non siamo dei fossili, gente che non è in grado di comprendere i cambiamenti, abbiamo solo un concetto di eleganza differente. Non facciamo collaborazioni glamour, ma lavoriamo sul tessuto, non cerchiamo iperbole nel design, ma sappiamo lavorare i volumi di una giacca maglia. E quando ci parlano di genderless non cediamo a esibizionismi, ma abbiamo una nostra visione romantica di una fidanzata che indossa in casa la nostra camicia”, racconta Luigi Lardini, uomo stile dell’omonimo brand che produce 40mila capispalla anche per grandi firme del lusso made in Italy - “Mi dispiace, senza offesa, ma a me come si vestono Fedez o Damiano dei Maneskin proprio non piace. Io credo nell’orgoglio di manifestare diverse attitudini di mascolinità, ma non c’è bisogno di scivolare nel ridicolo».

 

Andando oltre il dibattito sul buon gusto, la rimozione della parola moda sembra determinata anche dalle difficoltà nel saperla gestire e sostenere economicamente. A fronte di un mercato che lancia segnali di desiderio senza che questo corrisponda alla volontà o possibilità di spesa. Un esempio arriva proprio dal banco di prova del Natale dove secondo l’indagine Ebay condotta da Nielsen, il 64 per cento dei mille intervistati tra i 18 e 65 anni, ha posto in vetta alle aspirazioni l’abbigliamento e gli accessori, ma con trecento euro di capacità media di spesa suddivisa in almeno otto regali. Solo il 7 per cento ha dichiarato di avere un budget tra i cinquecento e mille euro da spendere. Non proprio le premesse per varcare la porta di una boutique di Via Montenapoleone o dell’e-commerce griffato. Non stupisca dunque, se secondo lo studio di Research& Markets, sarà il fast fashion a buon mercato di catene come Inditex, H&M Group, Fast Retailing (Uniqlo), Gap, Forever 21, Mango, Esprit, Primark e New Look, che oggi vale globalmente 68,6 miliardi di dollari, a crescere fino a 200 miliardi entro il 2030.

 

Un fatto che fa inorridire chi come Alessandro Squarzi, 260 mila followers su Instagram, è cultore di uno stile vintage che si dipana dal suo brand Fortela alla consulenza con Fay Archive: “La mia idea è sempre stata: vestirsi con poco di tanto piuttosto che con tanto di niente. Un bel cappotto cammello è un luogo mentale. Investi in uno color puffo con uno spacco a banana, e sai già che finirà rottamato. All’industria fashion va dato il merito di investire nell’alimentazione dei desideri, ma se la rincorri finisci paradossalmente fuori moda".

 

Per realtà come Gucci, Valentino, Prada, Burberry, Bottega Veneta, Louis Vuitton, Brunello Cucinelli, a cui si sommano le campagne maschili di Canali come la Gentle Gestures o di Ermenegildo Zegna, What Makes a Man, il focus sono l’investimento nel supporto delle arti visive (fondazioni contemporanee, padiglioni di Biennali, istituzioni e fiere culturali globali) e la valorizzazione di personalità che incarnano l’etica e l’estetica di un mondo dai confini mentali più dilatati. Certo fa un po’ specie poi scoprire, il dato emerge dall’assemblea dell’associazione Manageritalia, che le donne in posizioni apicali nell’industria delle Confezione di articoli di abbigliamento, a dati Inps, sia calata nel 2021 del 5,3 per cento, quando invece tutti i settori, dal sanitario al finanziario all’immobiliare sono cresciuti tra il 10 e l’7,3 per cento.

 

“I grandi gruppi della moda trasferiscono lodevolmente input sociali dall’alto verso il basso. Il nostro è un processo inverso, assorbiamo i valori della vita quotidiana che ci trasmettono i consumatori e li importiamo nei nostri prodotti che in questo modo sono più affini e confortevoli rispetto alle esigenze manifestate. Non vedo rivalità in questi due modi diversi di agire, solo possibilità di strutture, strategie e budget di comunicazione e cluster di clienti diversi”, spiega Leo Scordo, Brand Ceo di Pal Zileri: “La tendenza nell’abbigliamento informale non è più l’active, ma il leisurewear, l’abbigliamento per il relax, perché sono cambiati i codici comportamentali, che sappiamo più destrutturati ma ugualmente ricercati nelle fibre e nei dettagli di creatività. Sì, forse questa non è moda, è prodotto per uno stile di vita che prevediamo di lungo periodo”. Un altro manager di grande esperienza come Marco Pirone, amministratore delegato di Harmont & Blaine chiosa: “Sì, è vero non siamo moda. L’opportunità che oggi possiamo affrontare con fiducia è quella di parlare a nuovi clienti in cerca di un abbigliamento quotidiano che si concentri sul vestire e non sullo sfoggiare. Esiste uno stile positivista, che noi chiamiamo playful elegance, che si traduce in collezioni per vestire la quotidianità in modo casual ma sofisticato. Questa attitudine è molto seduttiva per il mercato asiatico che non si nutre più solo di lussi. Non a caso abbiamo individuato la Cina come piattaforma di maggior diffusione del brand”. Infatti, cosa hanno allora in comune moda per alto spendenti e confezione di abbigliamento a prezzo medio, se così li vogliamo separare? Il loro orizzonte si sovrappone nella ricerca di confini territoriali per la diffusione dei prodotti. Secondo l’analisi, sviluppata con Fondazione Edison, che PwC ha presentato due giorni fa a Pitti Uomo, nel 2022 la moda italiana raggiungerà i 78 miliardi di euro, mentre arriverà a toccare gli 81,3 miliardi nel 2023, superando i livelli pre-pandemia. 

 

A pesare sulla salute del comparto della moda italiana ed europea è stata la mancanza di flussi turistici: il crollo dei viaggi internazionali ha provocato infatti un dimezzamento della spesa turistica globale, confinando i turisti nei propri paesi di origine e spingendo i consumatori a raddoppiare lo shopping di lusso domestico. Di riflesso, i grandi marchi fashion che hanno investito per rendere più efficienti le proprie strategie di vendita e distribuzione sui mercati locali, soprattutto in Cina, e potenziare le proprie piattaforme digitali ed e-commerce, hanno registrato performance positive con risultati oltre alle aspettative. Segnali positivi arrivano anche dagli Stati Uniti, dove quasi la metà dei clienti si dichiara disposto a spendere di più in moda rispetto al 2021. Per la Cina, si intravedono picchi di crescita fino la 90 per cento anno su anno. Nei nuovi triangoli d’oro, tra Beijing, Hangzhou, Xian e Chengdu, moda torna essere una parola che mette d’accordo le maison e le confezioni. 


 

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