Marc Quinn, - “Thomas Beatie” (2009). Elmgreen&Dragset, - “Pregnant white maid” (2017). “What’s left” (2021) 

il foglio della moda

Alfano Miglietti: è in atto un processo di femminilizzazione aggressiva

Un processo di trasformazione dell'uomo segnato da rabbia e cattiveria. Nei confronti delle donne ma anche di se stesso

“Il corpo non è mai stato un’espressione naturale, ma sociale, e più volte nella storia femminilizzazione e mascolinità si sono alternate, anche esteticamente. Oggi l’uomo si sta femminilizzando, sta cambiando molto velocemente. Ma il suo processo di trasformazione è segnato da rabbia e cattiveria. Nei confronti delle donne, e ne abbiamo prova tutti i giorni, purtroppo, ma anche di se stesso. Si muove come se volesse occupare anche dimensioni che non gli appartengono, come se volesse invadere spazi altrui; la sua, in realtà, non è un’evoluzione e non è un desiderio: è un tentativo di occupazione. Estetico, sociale, riproduttivo. L’uomo continua, insomma, ad agire da maschio. Anche nel tentativo di controllare, assoggettandolo, mercificandolo, il corpo delle donne e il processo della vita”. Francesca Alfano Miglietti, con i suoi capelli diventati biondo platino, in acronimo e per meriti acclarati FAM, è la più importante curatrice d’arte contemporanea italiana. Insegna in tutte le più importanti accademie nazionali, da molti anni a Brera; è stata fondatrice della rivista d’arte più rivoluzionaria dell’ultimo trentennio, “Virus”; è rigidissima, coltissima, spiazzante. La sua “Corpus domini. Dal corpo glorioso alle rovine dell’anima”, colossale esposizione che, in cinque anni di lavoro, ha riunito per la prima volta in Italia oltre cento opere di artisti di trentaquattro paesi, è ancora in corso a Palazzo Reale, a Milano, visitatissima “soprattutto dai giovani”, dice contenta, sapendo che il tema dell’identità e delle sue mutazioni è sentito in particolare da loro.

 

Quando venne inaugurata, un paio di mesi fa, il sindaco Beppe Sala che in questi giorni si dibatte con i risvolti inaccettabili – e tutti sociali - della “tarrush gamea”, la molestia collettiva a scopo di umiliazione femminile in uso nei paesi nordafricani di cui si è vista la messa in pratica lo scorso Capodanno in piazza del Duomo, a pochi metri dalla mostra, scrisse che oggi “la nostra fisicità, esibita oppure rimossa, evocata attraverso i suoi resti oppure ridefinita attraverso nuovi canoni estetici, viene rimodulata da Corpus Domini fino a essere spinta oltre i suoi stessi confini”. Avrà modo di applicare la teoria alla realtà di una banlieue che si fa sempre più territorio in cui trovare il coraggio, non solo culturale ma anche politico, di mettere le mani. In epoca pandemica, l’unico vero terreno di confronto torna a essere il corpo.

 

FAM non ne ha tralasciato alcuna declinazione, dagli iperrealismi di Duane Hanson agli ultra-realismi di Marc Quinn, l’artista inglese che, fra i primi, ha messo in relazione il corpo umano (divenne noto per le proprie pulsioni estreme quando, nel 1991, eseguì con il suo sangue il proprio autoritratto scultoreo, trasformando la materia invisibile dell’organismo umano nella sostanza visibile dell’arte). Alla mostra milanese, Quinn ha concesso due statue in calcestruzzo, di esseri umani alterati. La donna presenta sul corpo rilievi geometrici e tribali, mentre l’uomo tiene nelle mani la propria pancia gravida. La mutazione dell’identità umana nelle sue immaginabili, e non sempre irreali, forme.

 

Scrive Francesca Alfano Miglietti nel saggio che apre il catalogo come lo ‘spostamento’ di segno di “Corpus domini” segni due direzioni: la prima è il passaggio di orizzonte teorico dalla Body Art all’Iperrealismo; la seconda è la consapevolezza che il tempo storico, in cui stiamo vivendo, dichiara e fa emergere due tipi di corpi: quello prodotto dallo spettacolo, perfetto, giovane, snello, sano, non fumatore e senza rughe e peli, e quello invisibile delle persone fuori dallo spettacolo, la cui immagine è spesso relegata a valigie, abiti, biciclette, strumenti di lavoro, o a una rappresentazione di masse - masse di esuli, masse di lavoratori, masse di malati, masse di disoccupati, masse di persone che esistono solo come categoria. E nel frattempo, mentre Corpus Domini andava, letteralmente, prendendo corpo, il mondo è stato colpito da una pandemia, e “la mostra ha assunto, inevitabilmente, anche un altro significato, si è spontaneamente spostata ancora e ha rimesso al centro un altro tipo di corpo: il corpo umano, fragile e indifeso”, attaccato da piccole particelle invisibili infettive. “Quello che viviamo è un lento diradarsi del confine che separa un dato oggettivo da un vissuto soggettivo e che porta a domandarsi se ciò che vediamo, sentiamo o tocchiamo sia veramente reale. Emerge una corporeità che non si riconosce in una sola immagine di corpo, e che trova pochi punti di riferimento nella costruzione dell’identità personale, quest’ultima intesa come ciò che si conosce di se stessi attraverso il riflesso dello sguardo dell’Altro e del contatto con altri corpi: il reale necessita dunque di essere ridefinito in una costellazione di considerazioni concernenti l’iperrealismo della nostra epoca, la fine della storia, la proiezione del reale nel suo doppio simulato. Il confine tra reale e immaginario è sempre meno riconoscibile tanto da assorbire la realtà dentro uno schermo, come dimostra l’ossessiva presenza degli schermi nella nostra vita”. 

 

Ne “Lo scambio simbolico e la morte (Feltrinelli, 1978), Jean Baudrillard definiva “fase video” quella che ha avuto inizio con la tv, e che progressivamente ha inglobato il corpo e l’esistenza dello spettatore. Un planetario reality show, che trasforma la quotidianità compiendo il processo di una “sostituzione del sangue con la linfa bianca dei media.” La mostra curata da FAM chiuderà a fine mese, ma già alla Fondazione Prada si va preparando per fine marzo la personale “Useless Bodies?”, del duo danese-svedese Elmgreen & Dragset, una delle indagini tematiche più estese mai realizzate dall’istituzione attorno al tema del corpo nell’era post-industriale, in cui la nostra presenza fisica sembra avere perso la sua centralità tanto da risultare ormai superflua. Il progetto affronta anche le modalità con cui gli individui si adattano fisicamente a un mondo sempre più dominato da un immaginario bidimensionale, in particolare in riferimento alla pandemia. Un tema in cui l’abito va assumendo, inevitabilmente, forma “altra”: rappresentazione, simbolo, modalità espressiva comunque parziale rispetto all’abito vero e insostituibile: la pelle di ognuno di noi.