Dolce&Gabbana ha venduto nove pezzi comprensivi di una tiara incrostata di diamanti, per la cifra record di 1.885,75 ETH, pari a 6 milioni di dollari (D&G) 

dentro la crypto art

Il voyeurismo d'alta moda

Fabiana Giacomotti

Oggetti digitali che si possiedono, ma solo online. La pandemia ci ha insegnato che la bellezza si guarda ma non si tocca

Roma, Via dei Baullari, giornata di freddo intenso. Nella vetrina della storica merceria c’è un paio di calze lunghe rosse in filo di Scozia da uomo al prezzo perfetto per essere infilate nella calza dell’Epifania insieme con altre piccole sorprese e una tavoletta di cioccolato fondente a concentrazione 75. In Inghilterra li chiamano stocking filler, i riempicalza, e la calza-nella-calza sembra la soluzione ideale, in pratica una mise en abime della regalistica. All’interno del negozio, il proprietario chiede con un certo imperio che mi tolga i guanti per disinfettarmi le mani con uno di quei gel appiccicosi che i negozi di seconda fascia tengono ormai all’ingresso da un paio di anni a disposizione di chiunque si affacci: tre euro al litro, odore rivoltante, secchezza epiteliale garantita. Ribatto che, essendo appena uscita di casa e avendo le mani coperte, preferirei evitare. Mi osserva torvo: “Ambè, nun tocchi gnente, però”. Il primo impulso è di girare sui tacchi, ma le calze hanno un punto di rosso perfetto, potrebbero passare per un prodotto doc di Gammarelli.

  

Accetto di scegliere senza toccare; dopotutto, ho esperienza sensoriale della trama e della consistenza del Filo di Scozia, ne ho certezza sensibile, hegeliana, insomma conosco già quello che sto per comprare: magari il filo potrà essere un po’ meno spesso e robusto dell’equivalente di Gammarelli, ma dopotutto il merciaio mi sta vendendo uno stocking filler da sei euro e novanta, non un golf di cashmere triplo filo da duemila, nel qual caso la memoria tattile potrebbe mancare l’obiettivo e toccare, saggiare, esprimersi sulla morbidezza, la consistenza e la sofficità del filato potrebbe rivelarsi indispensabile, insieme con l’aspersione di un gel che sarebbe comunque di migliore qualità. Di mio, posso attingere a mezzo secolo abbondante di tattilità golosa e felice, ma mi viene da pensare alle nuovissime generazioni che non possono fare altrettanto, accumulando cioè quel bagaglio sensoriale che gli psicologi ritengono passaggio fondamentale della crescita. Altro che peluche masticati con gusto e copertine odorose di famiglia. Le mamme dell’era pandemica non si sentono tranquille nemmeno dopo aver risciacquato i giocattoli e passato i pavimenti con l’amuchina, vecchia prassi che noi della generazione precedente non abbiamo mai rispettato perché convinte che un po’ di germi ingeriti a caso avrebbero rafforzato il sistema immunitario dei nostri figli.

 

Le trentenni con passeggino di adesso sbiancano se il piccolo allunga la mano sul volante della macchina della giostra a gettone, tirano fuori il disinfettante spray, i fazzolettini imbevuti, innaffiano, sgridano e minacciano. Noi, con tutto il nostro castello della memoria ricco e intatto, abbiamo invece imparato ad azionare la pulsantiera dell’ascensore condominiale con i denti della chiave di casa, fosse mai che un untorello traditore ci avesse posato il dito. “Guardare e non toccare è una cosa da imparare”: il monito delle tate della nostra infanzia, la cui professionalità veniva valutata anche dalla nostra compunzione nelle occasioni sociali e nelle uscite del primo pomeriggio, guai ad allungare le mani sui giocattoli delle bancarelle, è diventato norma sanitaria indispensabile, accettata con una serenità e una determinazione che molto devono anche alla progressiva smaterializzazione dell’esperienza sensibile generale a favore di una sofisticatissima forma di voyeurismo, guidata e amplificata dai social media.

 

Ci viene facile guardare e non toccare perché è quello che facciamo per circa sei ore e ventidue minuti al giorno, secondo gli ultimi dati del rapporto annuale Digital elaborato da We Are Social e Hootsuite, in testa app di messaggistica, intrattenimento, podcast compresi, ed ecommerce. Dalla combinazione fra gli ultimi tre è nata la grande tendenza dei mesi a venire che no, non sono i balletti su TikTok e nemmeno le sceneggiature familiari dei Ferragnez e della nouvelle vague di agender adolescenti che imitano i tic della mamma accumulando clic, like e soldi, ma lo sfruttamento commerciale della nostra propensione ad accontentarci di tutto quello che ci offre l’esperienza visiva, meglio se in solitaria. L’offerta contempla dosi importanti di sesso, naturalmente, ma in misura minore a quello che si potrebbe credere: il sito-app Onlyfans, nudi insospettabili e quasi tutti a pagamento, quattrocento milioni di visite al mese, se la gioca infatti con la rapida ascesa del cosiddetto “virtual bling”, il lusso virtuale sul quale stanno investendo tutte le gallerie d’arte mondiali e, dopo qualche tentennamento, le multinazionali della moda. Talvolta, perfino in combinato disposto, come nel caso di una specifica categoria di NFT, i Non Fungible Token, per i pochissimi che ancora non li conoscessero i “certificati di proprietà su opere digitali scritti su blockchain di un bene unico”, su beni che nella realtà sarebbero inavvicinabili per la stragrande maggioranza delle persone e che in versione digitale diventano quasi accessibili.

 

Stiamo iniziando a desiderare e acquistare oggetti e opere d’arte che possediamo davvero, che sono solo nostre, ma che non possiamo toccare. Roba che, insomma, ci limitiamo a guardare. Per questo Natale, in famiglia, è arrivato il certificato Nft di un’opera d’arte che non mi dispiacerebbe esporre in salotto e rimirare in un formato diverso dal jpeg. Quando mi rassegnerò a stamparla, per poterla guardare senza dover accendere il pc o lo smartphone ma semplicemente scendendo le scale, finirò per assomigliare a quei poverini che negli anni Settanta esponevano incorniciati i poster di Mondrian.

 

 

Sugli oggetti di lusso, le cose cambiano di poco. Prendete la Birkin, la borsa del desiderio, venduta al prezzo base di 7 mila euro al termine di liste d’attesa che in certi casi possono rivelarsi davvero capricciose. Da metà dicembre ne esiste una versione virtuale, la MetaBirkin: è, o per meglio dire era, disponibile in cento modelli in colori accesi, incluse stampe a imitazione della Gioconda e della Notte stellata di Van Gogh, maculati e finta pelliccia (la vera, come sappiamo, è stata messa al bando e fra poco chiuderanno per legge anche gli ultimi cinque allevamenti italiani rimasti). Nonostante la nostra sensibilità visiva ci dica il contrario – basta cercare sul web e la trovate – la MetaBirkin non esiste: è l’opera dell’artista californiano Mason Rothschild, ed è (stata) venduta sul marketplace NFT OpenSea al prezzo di partenza di 0.1 ETH, equivalenti a 450 dollari.

 

Nonostante la maison Hermès abbia diffuso un comunicato di denuncia per violazione della proprietà intellettuale, l’iniziativa ha raggiunto gli 800 mila dollari di raccolta e le opere disponibili sono sostanzialmente esaurite. Insomma, per dirla con Saint Exupéry, l’essenziale sarà pure invisibile agli occhi, ma in giro c’è gente ben contenta di possedere qualcosa che ha valore di mercato e che può rimirare fino a consumarsi gli occhi, ma che non può toccare.

 

Un giochetto artistico-finanziario, direte voi. E invece no, o perlomeno non solo, perché l’impegno che mettiamo semplicemente nell’abbellire le nostre foto prima di postarle è la dimostrazione che ci va benissimo baloccarci con i simulacri, sostituendoli al vero, anzi prendendoli come tali, fossero pure la nostra stessa persona. E d’altronde, se non ci facciamo scrupoli di offrire al mondo la versione migliorata, pixelata, di noi stessi – da tempo si studia la psicopatologia del virtuale, drammatica soprattutto per le confusioni non di rado violente che genera fra i più giovani – perché dovremmo avere remore o timori nei confronti di oggetti inanimati?

 

Già da qualche tempo – e sulle pagine del Foglio ne scrivemmo addirittura due anni fa, quando fu chiaro che gli esperimenti con i CRyptokitties, gattini virtuali da accudire come i tamagotchi di un tempo, e le prime partite video di basket, avrebbero raggiunto cifre astronomiche – i produttori di oggetti di lusso e di abbigliamento hanno iniziato a sperimentare la vendita di oggetti digitali a pochi euro. Il compratore li può scaricare e usare sui propri social per farsi bello, spacciandoli come scelta altamente ecologica, in quanto non derivata, almeno in apparenza, dall’utilizzo di materie prime, logistica, packaging, costi di vendita.

 
Orologi, sneaker e borsette che si possono mostrare senza doverli pulire e riporre, occupando spazio in guardaroba, ma solo nella memoria dei dispositivi elettronici. Ora, a parte il fatto che pochi di noi hanno calcolato il costo dell’energia consumata e delle emissioni di gas serra prodotte dalle nostre connessioni quotidiane (in realtà lo fa CodeCarbon, un software opensource leggero e gratuito sviluppato dal Montreal Institute for Learning Algorithms che stima l’impatto ambientale dell’uso di processori a seconda della zona in cui ci si trova e dell’uso o meno di fonti rinnovabili, ma il sistema è ancora abbastanza vago), è davvero incredibile come l’osservazione e il possesso di beni criptati, cioè nascosti, visibili e invisibili al tempo stesso, stia guadagnando terreno.

 

Lo scorso ottobre, i Dolce&Gabbana hanno venduto la prima collezione couture virtuale di token non scambiabili, composta da nove pezzi comprensivi di una tiara incrostata di diamanti, per la cifra record di 1.885,75 ETH, pari, all’attuale tasso di scambio, a 6 milioni di dollari. La sigla della divisa, Eth, sta per ethereum, un derivato dell’aggettivo etereo. Insomma, aria. Quelli che già prevedono la prossima bolla speculativa, sarebbero pronti a definirla aria fritta, ma se tutte le testate d’arte più prestigiose si sono inchinate all’exploit dei D&G, Art Tribune compresa, e ormai dedicano pagine su pagine al sistema, è perché il sistema esiste: etereo o gassoso che sia. D’altronde, il duo di via Goldoni non è certo il solo a far leva sulla nostra propensione per il voyeurismo vanitoso e il possesso nascosto per aumentare il fatturato: anche senza scendere sul triviale delle gonnelline e delle sneaker vendute da Balenciaga per pochi dollari di giocatori di Fortnite, va registrato il successo dell’asta di Christie’s per un video estratto dalla collezione “Aria” di Gucci, attualmente in vendita, diretto da Flora Sigismondi e Alessandro Michele: cavalli bianchi in corsa, volti mascherati di pizzo, loop ipnotico per 25 mila dollari realizzati, e tutti andati in beneficenza all’Unicef per la campagna vaccinale Covax a favore dei bambini dei paesi svantaggiati. Pubblicata sul sito della casa d’aste, la scheda dell’opera fa una certa impressione:

“GUCCI (EST. 1921) “Aria”, token ID: 3395; wallet address: 0xF7e89D581785050bE767Befc8F7eD0F665102218; smart contract address: 0xabefbc9fd2f806065b4f3c237d4b59d9a97bcac7; born-digital, looped video 00:04:05 minutes (1152 x 1152 pixels); Executed in 2021. This work is unique and is accompanied by a non-fungible token”.

Il video completo della collezione, cavalli inclusi, resta peraltro caricato su YouTube, dove attualmente totalizza 6,67 milioni di visualizzazioni. Lo scorso novembre, gli analisti di Morgan Stanley hanno calcolato che il gaming e l’NFT potrebbero raggiungere una quota del 10 per cento del totale fatturato mondiale del lusso entro il 2030, cioè qualcosa pari a 60 miliardi di euro. Grandioso.

   

 

Eppure, al fondo di tutto, resta qualcosa che non convince. Qualcosa di falso, superficiale, immateriale, e questo qualcosa sta emergendo anche dalle ultime collezioni presentate nei mesi scorsi, in arrivo in questi giorni nei negozi. Lo notava un paio di giorni fa su StyleZeitgeist il critico Eugene Rabkin:  “Il sesso, un tempo il più forte degli adagi del marketing, non vende più. E’ il voyeurismo che vende, i look ‘guardare e non toccare’”: cioè una mostra narcisistica, a uso social, del corpo modellato e reso più attraente da mesi di esercizi casalinghi da lockdown. Per chi abbia saputo non cedere al richiamo del divano, si intende, anche questa una discriminante fra chi “è in controllo di sé” e chi no. “Da quando il benessere è diventato l’ossessione della classe medio-alta, un corpo in forma è l’ultimo degli status symbol”, scrive Rabkin: lo si nota si vede anche dal numero di pubblicità di corsi di yoga e fitness che appaiono a ogni scroll su Instagram. Volessimo paragonare una pubblicità di lingerie di oggi a quella di venti, trenta anni fa, diciamo Savage x Fenty di Rihanna contro Calvin Klein, ci renderemmo subito conto della differenza fra le due, nonostante la quantità perfettamente comparabile di pelle esposta: da una parte, uno sguardo ancora maschile, sessuato, sul corpo femminile. Dall’altra, una donna che si mostra in mutande e reggiseno. Un corpo da guardare e da non toccare.