il debutto in borsa

Altro che polo del lusso, il metodo Zegna è l'italian way per conquistare Wall Street

Fabiana Giacomotti

Il marchio italiano di abbigliamento di lusso si quota al Nyse con i fondamentali giusti per l’oggi e per il domani. Ossia controllare la filiera e la supply chain, non accumulare marchi

Anticipata dalla consegna a casa di un cappellino da baseball nero e marron con il simbolo del NYSE al posto di quello dei New York Yankees, roba da maschi o femmine di carattere, la quotazione di Zegna – simbolo ticker ZGN, capitalizzazione di 2,4 miliardi di dollari - arriva nel momento in cui i mercati sembrano avere un grande bisogno di rassicurazioni di fronte all’avanzata della variante Omicron in tutto il mondo e a un’impennata di contagi in Italia. Le ragioni di questa rassicurazione sembrano rientrare tutti in questo sbarco del marchio per eccellenza del lusso maschile sul mercato azionario che il sistema attendeva da vent’anni, ma che forse solo adesso ha la forza e la “rotondità” giuste per tenere botta contro i probabili futuri assetti dei mercati, non solo del tessile-abbigliamento.

 

E su questo punto, la formula scelta - una spac di diritto americano, formula ancora guardata con un filo di sufficienza in Italia – in cui la famiglia di Trivero resta azionista di maggioranza con il 66 per cento, è forse meno interessante rispetto alle macro-tendenze del momento che questo conglomerato di marchi e industria rappresenta, e cioè la verticalità della filiera, dall’allevamento alla distribuzione dei capi finiti, raggiunta anche attraverso una serie di acquisizioni di piccole aziende specializzate nella produzione tessile di eccellenza, quindi il controllo delle materie prime e soprattutto della supply chain. Quando il socio di Gildo Zegna, Andrea Bonomi, fondatore di Investindustrial e presidente dell’Industrial Advisory Board, dice in collegamento da New York dopo il primo squillo di campanella di essere “entusiasta della reazione positiva alla business combination con Zegna da parte dei mercati, degli investitori e della comunità finanziaria” e di essere pronto a “fare il possibile per supportare Zegna in futuro”, sa che, almeno per quanto riguarda gli asset fondamentali, buona parte del lavoro è stato fatto.

  

    

La Cina sta tornando a chiudere per Covid, oggi perfino gli idraulici e gli installatori degli impianti di efficientamento energetico non riescono a smaltire le pratiche a causa della mancanza di componenti che dovrebbero arrivare dal sud est asiatico e che invece sono bloccati nelle fabbriche (ancora) chiuse. Bisognerà tornare a produrre intramuros o almeno in Europa, e questo sarà il grosso tema politico e sindacale del prossimo futuro. Nonostante le previsioni di crescita per il 2022, in alcune aree mondiali addirittura a doppia cifra, il tessile-abbigliamento vivrà quanto prima – in realtà lo sta già vivendo - una stagione di re-shoring forzato di cui beneficeranno le aziende che, come appunto Zegna, vantano il controllo dell’intero processo produttivo. Se, da una parte, questo re-shoring si abbatterà come un tornado sulle catene del fast fashion, quasi tutte operanti nei paesi di manodopera a basso costo, nel segmento del lusso assisteremo certamente a un ritocco verso l’alto dei prezzi: in realtà, questo sta già accadendo. Ed è fin troppo facile prevedere – lo facemmo ancora lo scorso agosto sul Foglio - che, davanti a uno scenario come questo, vincerà non chi avrà “accumulato più marchi”, come osserva Gildo Zegna, sollecitato dalla solita, querula e un po’ miope domanda sul “polo del lusso italiano”, ma chi controllerà l’industria. Non è un caso che Bernard Arnault, patron di Lvmh, stia correndo ai ripari acquisendo quante più aziende manifatturiere d’eccellenza possibili in Italia e in Francia.

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