l'esposizione “The way we are”

Emporio Armani, quarant'anni come fosse oggi

Il grande manifesto in via Broletto è diventato un landmark della città. Per i milanesi, trovarsi lì davanti è naturale come per i romani trovarsi a piazza di Spagna

Fabiana Giacomotti

Diceva Henri Bergson, padre filosofico del Novecento, che “il tempo è un’invenzione o è niente del tutto”, per cui, visitando la mostra per i Quaranta Anni dell’Emporio Armani, in programmazione al Silos di via Bergognone fino al 6 febbraio del 2022, non si trova mai una didascalia. Il curatore dell’esposizione, che è lo stesso Giorgio Armani, ha infatti eternizzato il tempo trascorso in una scelta di capi che sarebbe una vera sfida identificare per anno o collezione.

 

Già il titolo dell’esposizione, “The way we are”, come siamo, ribalta lo spirito spesso elegiaco e nostalgico di questo genere di manifestazione per mettere davanti agli occhi dello spettatore quello che la moda intelligente può rappresentare, e cioè il sé e la sua naturale evoluzione, cioè il racconto della personalità di chi la indossa. La moda che interpreta lo spirito di un’epoca è meno caduca di quel che raccontava Oscar Wilde al suo uditorio pagante, e nessuno ha saputo interpretare l’evoluzione della società occidentale degli ultimi quarant’anni più di Armani, peraltro partendo, anzi focalizzando il proprio messaggio su una città mediamente piccola come Milano che, anche grazie a lui, ha saputo collocarsi al centro della moda mondiale.

 

Non era ancora così nel 1981, quando in via Durini aprì l’Emporio Armani, frutto di una valutazione tanto commerciale quanto sociale, e cioè offrire una moda per tutti. La narrativa del brand dice che l’icona dell’aquilotto nacque in modo del tutto estemporaneo, mentre Armani era al telefono e il suo primo partner, Sergio Galeotti, insisteva perché producesse quanto prima un logo per quella prima linea di abbigliamento non necessariamente destinata ai giovanissimi, ma di sicuro alla portata delle loro tasche. Vergò pochi segni su un taccuino: “Quel simbolo di irraggiungibilità lanciò il mio nome nell’olimpo dei giovani”. L’aquila solitaria, the one and only, simbolo di esclusione, in opposizione all’inclusività del concetto dell’emporio, luogo di esposizione e di acquisto di merci accessibili che, lungo tutto l’Ottocento, definì anche testate periodiche e cataloghi, insieme con “museum” e “bazar”.

 

Poche ore fa, a margine della sfilata di Emporio, colorata di blu e del rosso di certe albe felici, con un tocco di rasserenante lievità, Armani raccontava come, dapprincipio, pensasse di produrre giusto una polo, forse qualche capo sportivo, insomma cose così. Quarant’anni dopo, il grande billboard dell’Emporio in via Broletto è diventato un landmark della città, e perfino un indirizzo e un luogo di incontro. Per i milanesi, trovarsi davanti al manifesto di Armani è naturale come per i romani trovarsi a piazza di Spagna. Ogni anno, si rientra dalle vacanze estive e si alza lo sguardo per vedere la nuova campagna pubblicitaria, e lo stesso gesto si compie al rientro dalle vacanze di Natale.

 

A un certo punto di questa lunga storia, e più precisamente nel 2009, apparve in tutta la sua provocatoria bellezza un David Beckham in mutande. Le cronache dicono che nella foto fosse presente anche la moglie Victoria, ex Spice girl già in predicato di trasformarsi nella stilista non proprio profittevole che è ora, ma non ci sono dubbi che la cittadinanza ambosessi rivolgesse sguardi golosi soprattutto a lui e a tutta quella generosissima magnificenza. Al ricordo di quella stagione è dedicata la sala più spiritosa: Armani l’ha riempita di fotografie. E di una lunga fila di mutande stese su fili da bucato.