Il Foglio della moda

La folle corsa all'impatto zero

Elettra Biagini

Potremmo raggiungerlo smettendo di respirare. Oppure lavorando di correttivi. Molti  tentativi, investimenti a carico dei produttori

Qualche giorno fa, in un’intervista al supplemento di FT “The art of Fashion” in occasione del ventennale del suo brand eponimo, Stella McCartney raccontava di cercare da sempre di raggiungere l’impatto zero nel suo business, e di non averlo ancora raggiunto a causa del packaging a cui le regolamentazioni dei vari stati la costringono, lasciando cioè intendere di aver raggiunto il totale no impact su tutti i capi. Pur non avendo mai controllato che tipo di colle usi per le sue calzature in micelio a imitazione pelle, il già celebre Mylo coltivato dalla Bolt Threads di Emeryville, California, di cui sentimmo parlare per la prima volta in un convegno di Altagamma quasi cinque anni fa, la dichiarazione è suggestiva, abile ma ben poco reale in quanto, volendo dirla con i seguaci più estremi della già dimenticata Greta Thunberg, l’impatto zero totale e assoluto dell’attività industriale non è dato se non chiudendo qualsiasi attività e, per i pasionari del tema, smettendo anche noi stessi di respirare, visto che al contrario delle piante non rigeneriamo l’ambiente ma produciamo anidride carbonica in misura minore ma molto similare a quella della mandrie ruminanti che inquinano il pianeta più di ogni altra espressione di vita sulla Terra.

 

Dunque? Dunque, in questa corsa folle all’impatto zero che ha colto i brand ben più di quanto chieda ancora per il momento la maggior parte dei consumatori, che non è certo un bene ma è un dato effettivo, ai produttori più attenti, agli istituti di ricerca internazionale più innovativi, alle istituzioni capaci di dialogo. Se la nuova edizione di Lineapelle, il salone dedicato a produttori di pellami e accessori per calzaturifici e pelletterie, ha deciso di inaugurare un’area alla ricerca sui nuovi materiali – il direttore generale Fulvia Bacchi annuncia elaborazioni in polvere di marmo, micelio ma anche di altre sperimentazioni – è perché sa benissimo che uno scontro a colpi di chi-usa-meno-colle/plastiche/polimeri, chi meno danneggia il pianeta, che cosa facciamo di quei miliardi di pelli animali derivate dalla passione umana per il consumo di carne che vanno riutilizzate comunque - sarebbe poco produttivo. Per questo, ha deciso di accogliere al salone tutti gli alternativi di tendenza, e anche di valorizzare i suoi associati più attenti all’evoluzione del mestiere, storicamente negletto, del conciatore, uno per tutti la Dani di Vicenza, che va scalando posizioni e stringendo collaborazioni importanti (la prima con Montblanc) grazie al progetto “Zero Impact” che, come dire, cerca con ogni mezzo di compensare le inevitabili reazioni dell’attività industriale sul pianeta: pellami realizzati senza metalli pesanti all’interno di una filiera corta, massimo riutilizzo degli scarti di lavorazione sia nella moda sia nell’automotive e nel design, compensazione delle quote di CO2 prodotte durante il processo di lavorazione delle pelli (dopo i roghi devastanti di questa estate ci sarebbe un gran lavoro da fare in Calabria, per esempio) e un contributo alla riforestazione attraverso progetti certificati dalla Unfccc, la Convenzione quadro dell’Onu sul cambiamento climatico.

 

Fino a oggi, il ceo Giancarlo Dani, che pubblica il bilancio di sostenibilità da sei anni, ha piantumato 3mila alberi grazie ai primi cinquanta clienti che hanno aderito al progetto. Si scalda un po’ quando osserva che “il mondo della concia italiana di oggi non ha ormai nulla a che vedere con certe idee preconcette sul nostro settore, e in particolare su quello italiano”. Ogni anno investe il 10 per cento del fatturato in innovazione e ricerca. Poi arrivano i brand e diramano comunicati. Il vero progetto su cui dovrebbe puntare la conceria, come altri settori manifatturieri d’eccellenza, è al cosiddetto ingredient branding. In slogan, al modello “Intel inside” che è un po’ la strategia perseguita dal Consorzio Cuoio di Toscana: una garanzia in più per tutti.

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