La Hearst Tower di New York (EPA/CHUCK CHOI)

Il Foglio della Moda

L'epoca della firma fluida

Fabiana Giacomotti

Chiacchierata con il boss di Hearst Europe e Italia Giacomo Moletto sulla scomparsa del mito del contratto in esclusiva e tutti i vantaggi (forse) di un’organizzazione orizzontale

“Firme famose e grandi competenze non hanno bisogno di un contratto esclusivo a tempo indeterminato: si possono legare alle case editrici con formule diverse, anche di partnership, magari”. Ascoltare un editore di giornali mentre teorizza la fluidità del genere “Grandi Firme del Giornalismo” e afferma che “una redazione totalizzante non è più un modello possibile”, quando per trent’anni chi ha un mercato ha firmato contratti capestro, la rubrica all’estero sì ma due libri all’anno no, è il vero, grande segno della rivoluzione in atto nell’editoria. Ma è soprattutto l’evidenza che “l’esclusiva”, qualunque sia, è una questione morta insieme con il Michele degli anni del whisky Glen Grant, per i pochi che ricordano lui e quegli anni gloriosi della stampa femminile, gli Ottanta, quando bastava lanciare una testata di grande formato in carta patinata perché frotte di aziende della moda se ne contendessero gli spazi pubblicitari.

 

Le concessionarie le chiamavano, senza vergogna, contenitori. Ora nulla si contiene ma invece deborda lungo il flusso del web e le esigenze del SEO; tutto è instabile e mutevole nel mare di un’informazione scarsamente riconosciuta e pagata peggio, in cui naufraghi troppo numerosi e troppo pesanti rischiano di mandare a fondo la zattera della Medusa, come quel morto sulla sinistra del dipinto di Géricault, che uno dei superstiti del naufragio non sa bene se continuare a trattenere con la mano o sospingere in acqua. è tutto fluido, ma anche chiarissimo. Dunque, per tutta la durata di questa chiacchierata con Giacomo Moletto, country manager di Hearst Italia e chief operating officer di Hearst Europe, non abbiamo evocato nemmeno una volta le ragioni vere, basiche, per le quali negli ultimi due mesi abbia accompagnato alla porta, pur con ricchissimi scivoli fino a cinquantasei mensilità, una cinquantina di impiegati, circa altrettanti professionisti e tutti i direttori, sostanzialmente la metà dell’organico, adottando per i femminili Elle, Marie Claire, Cosmopolitan, il maschile Esquire e, in parte, Gente, un modello organizzativo incentrato su una figura di coordinamento (un uomo, Massimo Russo, da cui reazioni futilmente stizzite della categoria, visto che metà delle testate femminili ancora attive sono state lanciate da uomini e la storia dell’editoria ne è piena) e molti capiredattori potenziati.

 

La diffusione stampata dei magazine “centrale, perché offre quella unicità di visione che il digitale non può garantire”, è conservata ma sarà limitata, soprattutto per Cosmopolitan che già realizza il 78 per cento del proprio conto economico col digitale e che infatti a breve uscirà a cadenza bimestrale. Il riassetto è però principalmente organizzativo, e mira alla verticalizzazione dei contenuti e alla orizzontalità delle redazioni, governate da un ufficio centrale, “sul modello dei quotidiani”, che è dichiarazione condivisibile fino a un certo punto, visto che nei quotidiani il ruolo e la personalità del direttore nell’indirizzo e nella guida sono determinanti. è però vero, come osserva Moletto, che le competenze richieste adesso per dirigere una testata di moda, un tempo limitate alla creatività e alle relazioni, siano ormai difficilmente ascrivibili a una sola persona, ed è anche vero che i nuovi lettori cerchino un rapporto diretto con la testata e con alcune delle sue firme, più che con un solo e unico referente. In ogni caso, quel che Moletto avrebbe potuto dire sulle cause di questa riorganizzazione è noto a tutti, da anni, al di là delle querimonie di rito della categoria, ed è scritto nei bilanci che ci ha fornito: nel 2018, compresa la pubblicità nazionale e internazionale, Hearst Italia fatturava 88,7 milioni, di cui il 12,5 per cento relativi al digitale; nel 2019 il fatturato era sceso a 80,1 milioni e il peso del digitale era cresciuto al 15 per cento. Nel 2020 ha fatturato 55,36 milioni, circa il 40 per cento in meno, mentre il digitale continuava a crescere e ha registrato un boom del 204 per cento in più nei primi sei mesi dell’anno in corso.

 

Una situazione come questa, peraltro perfettamente sovrapponibile alla tabella elaborata da Nielsen per Il Foglio della Moda (in dieci anni il budget destinato alla stampa si è dimezzato, mentre è triplicato sul web e perfino la radio in crescita) equivale a un piano di ristrutturazione già scritto. Il boss di Hearst dice che il progetto in corso “è sperimentale rispetto all’Europa”, ma che potrebbe “anche restare un caso unico”, in quanto si tratta di “una scelta talmente rivoluzionaria da richiedere una certa cautela”. In traduzione: nessun altro ha un organico pesante quanto l’avevamo noi. Su questa casa editrice, stratificazione progressiva di epoche e testate rusconiane (Gente, Gioia poi assorbito da Elle), para-mondadoriane (Cosmopolitan e Marie Claire), para-rizzoliane (ancora Elle: non dimenticheremo mai il giorno in cui Maurizio Romiti, all’epoca amministratore delegato di Rizzoli, ri-cedette i diritti di sfruttamento della testata in Italia ad Hachette per un prezzo inferiore alla valutazione), gravavano infatti ancora, e a differenza della stessa Rizzoli, della Mondadori e di Condé Nast dove i tagli, chirurgici, si sono protratti per anni, redazioni antichissime e molto onerose, oltre che abituate a modelli di lavoro impiegatizi.

 

Con la ristrutturazione di Hearst, si può dire che il tempo dei travet della didascalia sia finito. Speriamo però che non arrivi quello degli improvvisati allo sbaraglio pagati dieci euro a pezzo. L’altro giorno, sul sito di uno dei magazine succitati, abbiamo letto per esempio che Miuccia Prada fa couture; notizia che, se fosse vera, porterebbe l’azienda a un cambiamento del modello di business abbastanza significativo da poter essere menzionato sulla stessa prima pagina del New York Times che due settimane fa analizzava invece la progressiva estinzione delle “imperatrici della moda” (“the imperial editor goes the way of the Dodo”), cioè delle grandi direttrici di vaste relazioni e profonda conoscenza del settore, eccezione fatta, si intende, per il direttore di Vogue America, Anna Wintour, che governando da sola un fatturato superiore ai 100 milioni di dollari all’anno ha ottenuto non solo l’incarico di responsabile dei contenuti di tutte le testate edite dal gruppo Condé Nast nel mondo, ma ha dato lei stessa il benservito ai dodo. Moletto sa bene che, in questo modello gestionale di forte autonomia, la formazione e la qualità del linguaggio sono temi dirimenti: si prefigge dunque di modellarli “responsabilizzando gli autori”, cioè “cambiandone l’atteggiamento”, ed è convinto che questa valorizzazione delle competenze orizzontali, “un’organizzazione piatta in grado di autoregolarsi” gli permetterà di ottenere un risultato apprezzabile, e di continuare nel frattempo ad aggiungere contatti digitali e a impegnarsi per conservare la guida di quelle utili triangolazioni fra brand e lettore che sono alla base di questo sistema.

 

Come si cambia per non morire e un po’, lasciatecelo dire, anche per amore, perché mentre ascoltavamo Moletto inerpicarsi lungo la parete rocciosa dei desk doppi e tripli e dei linguaggi singolari, non riuscivamo a non pensare a quanto debba ancora amarli, questi periodici, per non aver adottato invece la strategia di accorpamento delle edizioni locali che la rivale Condé Nast ha scelto per l’Europa, in un’ottica di glocalismo dei contenuti che ricorda molto da vicino il modello di vendita delle boutique monomarca, molti capi uguali in tutto il mondo e una piccola offerta di edizioni limitate (“ci avevamo pensato anche noi: adesso vedremo quale modello funziona meglio”), oppure trasformarsi in un semplice editore conto terzi, cioè fornitore di contenuti ai brand. Al momento, Hearst ha scelto entrambe queste vie: a fianco in Svizzera opera infatti da sei anni una controllata di editoria digitale che produce branded content e progetti di interazione al consumatore con i brand (quello che vedete riprodotta nelle immagini è appunto un progetto curato per Moncler su Facebook, dicono con risultati strepitosi): “Ho ancora la convinzione che fare contenuti sia un mestiere per cui c’è bisogno di competenze e formazione specifica e di tanta dedizione”.

 

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