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il foglio della moda

Cartapesta. Il Covid ha presentato il conto anche all'editoria di moda

Fabiana Giacomotti

Centinaia di licenziamenti, scivoli pensionistici, mentre le testate si fondono e i brand diventano editori. Chi ha capito si è già riposizionato. Considerazioni di fondo sul ruolo del settore e gran girotondo di colleghi, direttori e grandi firme

Che per il mondo là fuori l’editoria periodica, non solo di di moda visto che il gruppo Gedi ha annunciato l’incorporazione dell'Espresso in una società di futura cessione, sia una faccenda meno fondamentale di quanto crediamo noi che la viviamo ogni giorno, ce l’ha fatto capire meglio di ogni altro Marco Dambrosio, Makkox, quando gli abbiamo raccontato il tema del numero per la tavola mensile, il wrap che avvolge Il Foglio della moda e che nel giro di cinque numeri è già diventato un appuntamento.

Abbiamo elencato le rivoluzioni in atto nei due principali gruppi mondiali dell’editoria di moda, Condé Nast e Hearst Magazines, le edizioni per aree geografiche in sostituzione di quelle nazionali, le centinaia di colleghi accompagnati alla pensione con scivoli fino a cinquantasei mesi ma anche senza. Abbiamo raccontato dello strapotere dei cosiddetti “coordinamenti pubblicitari”, di fatto super-direttori editoriali, una dinamica che nel giro di vent’anni ha innescato un circolo vizioso in cui la fiducia del lettore è scesa ai minimi termini mentre i brand, trasformati giocoforza in azionisti di maggioranza di riviste dalle diffusioni periclitanti, si sono ritrovati fra le mani non più una bambola in vesti di seta, ma un peluche spelacchiato da cui l’imbottitura di stracci esplode fra i punti allentati. Gli abbiamo raccontato delle difficoltà dei giovani stilisti a trovare spazio e voce, perché solo poche testate possono permettersi la libertà di dare spazio a chi non “investe”, e di come gli stessi si siano abilmente arrangiati con i social, traendone insperati vantaggi al punto di attrarre l’attenzione di possibili partner, primo fra tutti il re della moda mondiale, Bernard Arnault. Abbiamo elencato i sotterfugi dei colleghi per tenersi a galla, ma anche l’ignoranza crassa di molti fra i nuovi arrivati, i fai-da-te del web dalla consecutio traballante e l’inglese surreale che stanno per sostituire i tanti che forse si sono piegati troppo, per tanti motivi, ma che almeno distinguevano fra un taglio sbieco e un’arricciatura. "Vabbé, dovrò puntare sugli influencer. Voi siete proprio una nicchia", ha osservato Marco al telefono e noi abbiamo abbozzato perché sì, dopotutto che cosa cambia se consigliamo una gonna invece di un’altra, non siamo mica quelli che davano valutazioni entusiaste dei titoli Parmalat e Cirio pur conoscendo la situazione e hanno mandato in fumo i risparmi di migliaia di onesti lettori, senza peraltro essere sanzionati, mentre sui nostri presunti scambi e regalie di borsette, l’immarcescibile Ordine dei Giornalisti ha messo il naso più volte. Poi, pe­rò, ci ha colto un moto di orgoglio e abbiamo ripensato al ruolo dell’editoria di moda e delle riviste femminili nell’evoluzione della società: alla Belle Assemblée che nel 1818 recensì per prima il romanzo su un “nuovo Prometeo” di un autore anonimo che sembrava promettere bene, a Samuel e Isabella Beeton che avevano fatto i soldi pubblicando La capanna dello Zio Tom ma poi li avevano investiti tutti in una rivista popolare che insegnava alle massaie i rudimenti dell’igiene e della cura della casa. 

 

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Ci siamo un po’ inteneriti al ricordo del Ladies’ home journal, testata plu­ricentenaria ancora in auge, peraltro, che arrivava con la diligenza nel Far West offrendo un network di sorellanza fra le mogli dei pionieri e che nel 1968 pubblicò in copertina la prima modella di colore, e ancora al Corriere delle Dame che a Milano si trasformò in quotidiano in quelle fatidiche Cinque Giornate per accogliere gli scritti e le missive dei rivoltosi compreso Carlo Tenca. E che dire di Gioseffa Cornoldi Caminer, che nel 1786, prima direttrice italiana di una rivista di moda, stigmatizzò la bellezza come discrimine per l’accettazione del femminile. Abbiamo ripensato ad Amica e alle sue battaglie per il divorzio e l’aborto e contro la violenza sulle donne e anche a Vogue Italia con la prima black issue della storia e la sua capacità di intercettare il sentimento mondiale nel primo lockdown dell’epoca Covid, e insomma a tutte le istanze sociali, morali, ai cambiamenti che sono passati per le pagine dei femminili in senso ampio e dei giornali di moda che ne sono un derivato, spesso più sofisticato e settoriale, e ci siamo chiesti quando il meccanismo abbia iniziato a incepparsi. Quando si sia prodotto questo scollamento fra l’evoluzione della società, che nessun altro settore editoriale ha saputo interpretare e anticipare di più e meglio, e l’attuale contenuto delle testate e dei loro siti. Siamo convinti che gli influencer e anche la progressiva e conclamata disaffezione per la carta stampata siano responsabili fino a un certo punto di questo crollo di copie e di incisività, altrimenti non si capirebbe perché, come annota in queste pagine il direttore comunicazione e marketing di Etro, Carlo Mengucci, fioriscano le piccole testate indipendenti, con focus editoriali precisi e pubblici di riferimento appassionati. Qualche settimana fa, mentre il direttore di Vanity Fair Italia Simone Marchetti, premiato come “excellence” del giornalismo alla kermesse Taomoda fondata dalla collega Agata Patrizia Saccone, raccontava dal palcoscenico del Teatro Antico di Taormina l’uscita, nel 2022, di un’unica edizione europea, ci siamo domandati se davvero i publisher americani considerino l’Europa un’unica entità geografica e storica, felicemente ignari della sua storia e delle sue profonde differenze, o se questa scelta, che finirà inevitabilmente per appiattire e omologare le scelte redazionali, riducendo i localismi e le loro specificità, sia dettata unicamente da un problema di costi, di stampa ma soprattutto di staff sovradimensionati e in apparenza inamovibili, a cui per anni il sindacato ha opposto resistenze di cui ora tutti pagheranno lo scotto. Il bacino pubblicitario è ancora interessante ma negli ultimi dieci anni ha perso il 30 per cento: la ripresa degli ultimi sei mesi è quasi certamente un rimbalzo tecnico, dovuto alla smaniosissima voglia di recupero e a un revenge shopping che è appena stato certificato dalle semestrali di tutti i gruppi della moda, da Kering e Lvmh a Cucinelli, Armani, Prada, e che bisognerà attendere fine anno per vedere confermato o meno. Ma è un fatto che l’immediatezza della notizia, o la profondità di analisi e di immagine richiesta dal settore business to business, mal si coniughino con le riviste omnibus di un tempo. E dopotutto, nulla è eterno. Qualche anno fa, il Comune di Milano pubblicò l’elenco delle testate femminili e di moda pubblicate e scomparse negli ultimi trecento anni in città: consta di quattrocento pagine, e sfogliarlo fa una certa impressione. Si scoprono titoli che ebbero una sola uscita o quattro o sei, co­me in Francia quel mirabile esperimento di scrittura (e di tentata vendita di nastri e cappellini per corrispondenza, l’e-commerce ottocentesco) che fu la Dernière Mode di Stéphane Mallarmé, padre del Simbolismo: vivevano di sottoscrizioni, cioè di abbonamenti pre-pagati, che è il metodo di vendita più sicuro e redditizio, ma che per i periodici si è fatto sempre più difficile. Voleste abbonarvi adesso a Vogue Italia, potreste farlo a meno di 28 euro per un anno intero, una cifra inferiore al suo costo di stampa ma comunque preziosissima per la garanzia di lettura stabile (la vostra) che offre. Nel frattempo, i brand di moda sono diventati essi stessi editori omnichannel, come osserva Mena Marano del gruppo Arav. I più chic di loro si regalano anche riviste patinate, due o tre all’anno, dirette da giornalisti in pensione o creativi a vario titolo. Alcune, come la testata del gruppo Slowear o quella di Hermès, presentano carta di una grammatura che la maggior parte dei corrispettivi trimestrali diffusi nelle edicole si sognano, pregevoli collaborazioni, iniziative iconografiche inedite se non vere e proprie opere d’arte. Si leggono con piacere, quasi sempre si conservano. Ma basta questa disintermediazione totale per attrarre, interessare a conservare un lettore e un potenziale cliente? Ci hanno detto tutti di no, a partire da Giorgio Guidotti, vicepresidente comunicazione e pr worldwide di Max Mara, che governa una di queste testate, diffusa in migliaia di copie, e che ne scrive a pagina 4. Di un rapporto mediatico, di ricchezza e diversificazione di contenuti, c’è bisogno oggi come nel momento in cui la piccolissima borghesia, nata con la rivoluzione industriale in mezza Europa, ritenne arrivato il momento di educarsi agli usi e i costumi delle classi più abbienti (le leggi suntuarie erano state nel frattempo abolite e tutti potevano vestirsi e arredare casa come più aggradava loro) e nello stesso periodo l’industria dell’abbigliamento e della bellezza capì che per ottenere i risultati di crescita che si prefiggeva avrebbe dovuto raggiungere il numero più elevato possibile di utenti, con la sua pubblicità e un racconto accattivante della sua produzione. L’editoria di moda è nata come anello di congiunzione fra questi due mondi. Qualcosa è andato storto, come ci raccontano tanti che di questo mondo fanno o hanno fatto parte Per fortuna, non tutto è andato perduto: come dice Marchetti, ai giovani, alle nuove generazioni, bisogna saper parlare perché sono affamate di informazione di qualità. è questa la parola chiave.

 

Quanto è sbagliato inseguire i social sul loro terreno

 

"Ah, hai lavorato a Donna Moderna? Allora hai fatto il Vietnam!". Questa battuta circolava tra i giornalisti alla fine degli anni Novanta. E nasceva da una realtà che non posso negare. Quando nel 1995 divenni condirettore della rivista, a fianco del direttore Patrizia Avoledo, mi trovai tra le mani una macchina da guerra. Più di sessanta persone in redazione, centinaia di migliaia di copie vendute (arrivammo al milione), una massa di inserzionisti che facevano la fila per entrare. Per mantenere alta la reputazione che Donna Moderna si era conquistata come rivista rigorosa e attendibile, e nello stesso tempo rinnovarla, sottoponemmo noi stesse e la redazione a uno sforzo eccezionale. Nel 2013 Patrizia e io fummo invitate a prendere la porta. La mia era un’uscita fisiologica, e­ro in età di pensione. Ma avevo un presentimento: che quella fine sarebbe stata solo l’inizio. E infatti lo fu. Quando si spense la forza propulsiva dei collaterali (rossetti, libri, parei), per compensare le perdite in edicola si inventò una sorta di sistema solare: attorno alla testata presero a ruotare satelliti di ogni genere: inserti cartacei, prodotti digitali, ma la grande e proficua trovata furono gli eventi sponsorizzati. La testate si fecero brand e il territorio diventò un nuovo media. Un’evoluzione interessante, ma rischiosa. Perché, rovesciando il mito di Crono, questi “figli” se non tenuti a bada, avrebbero potuto mangiarsi il padre che li aveva generati. Infatti, non più da protagonista ma da spettatrice, cominciai ad assistere, in particolare nei periodici, a tre fenomeni. Primo: un estenuante corpo a corpo tra carta e digitale dove, si sa, la carta sta avendo la peggio. Secondo: l’invasione degli ultracorpi, cioè una intromissione esorbitante degli inserzionisti pubblicitari. Terzo: la sistematica decurtazione delle forze redazionali. Con la pandemia, che ha costretto a lavorare da remoto e ha portato alla chiusura di molte edicole, il piatto piange e gli editori non sanno fare altro che tagliare.

L’effetto collaterale più grave di queste manovre, che cercano e non trovano un modello di business sostenibile, è lo scadimento della qualità dei prodotti.

Tanto di cappello ai direttori che ce la mettono tutta pur di farsi venire un’idea che “ingaggi”, una parola che oggi piace molto, il lettore. E ai redattori che, ridotti ai minimi termini, da puri scriventi sono diventati videomaker, social-insti, performer.

Però le redazioni sono deboli. Non più spalleggiate dagli editori, subiscono ogni sorta di pressioni.

Così le interviste si assomigliano un po’ tutte (vietato fare certe domande), gli errori abbondano (non c’è tempo né gente sufficiente per controllare), le “marchette” saltano all’occhio (siamo sicuri che la storia di quel o quella stilista sia una libera scelta e non un diktat? E che, soprattutto, interessi il lettore?).

Nel tentativo di non restare indietro si inseguono i social, arrivando sempre secondi. L’impressione è che, persa la stima degli editori, i giornali abbiano perso anche l’autostima.

Possibile, mi chiedo, che non si possa trovare un modello di business che salvi la qualità del prodotto (su carta o digitale poco importa), la fiducia e il rispetto del lettore e l’alleanza- necessaria ma non ricattatoria- con gli inserzionisti?

Cipriana Dall’Orto, già co-fondatrice e condirettrice di Donna Moderna

 

Sbagli? Correggi dopo Primum, sfamare il minotauro SeO

 

Quando ho iniziato a fare la fashion reporter, nel 1998, mi calavo in esperienze immersive sconvolgenti: la mia prima sfilata di Alexander McQueen a Londra ha inciso sulla mia immaginazione più dei romanzi di Melville. Assemblavo parole vorticose su fogli che lasciavano spazio alla scrittura e all’immaginazione. Ora le pagine di carta si riavvolgono infeltrite, si restringono, arretrano come i ghiacci nella calotta polare. Non c’è tempo per la profondità d’analisi: bisogna affrettarsi a scrollare, postare, scrinshottare, forwardare, senza mai scordare la caption. Fa niente se si sbagliano hashtag, mention, tag: tutto è fluido, si corregge dopo, l’importante è sfamare il pescione SEO, mantenerlo sempre tonico, sostenere la sua potenza muscolare con tre Kate Middleton in cappotto rosa o due Elettre Lamborghini in salopette di jeans.

Francesca Delogu, già Direttore di Cosmopolitan

 

La miopia degli editori e il nostro utile trasformismo

 

Ho iniziato la professione quando all'esame di Stato se dicevi “macchina da scrivere” e non “macchina per scrivere” venivi espulso prima ancora di sederti, e dovevi concordare le vacanze non con il direttore ma con il capo della tipografia: se metteva i tuoi pezzi in fondo alla pila era inutile prenotare il volo. Ora scrivo con l’iPhone e non mi serve altro; è la mia scrivania, il mio blocco degli appunti, l’archivio e forse anche il collega che frequento di più. Nel mio percorso, ho lavorato a lungo per Vogue, per un quotidiano giapponese, per mensili e settimanali, collaborazioni che in parte ho ancora; la mia attività include però ora quella di consulente per alcune manifestazioni, sempre legate o tangenti alla moda. Sono passata anche “di là”, mettendo a disposizione quello che credo di saper fare: creare contenuti, focalizzare tendenze, identificare andamenti del mercato, curare strategie di comunicazione, studiare un linguaggio, mettere in relazione persone e valori, come fanno quotidianamente un giornalista o una stylist di moda. Figure che avevano una centralità, una potenza creativa, e che sono state piano piano esautorate, messe ai margini da dirigenti impauriti dal “blob” del digitale che l’editoria ha inizialmente sottovalutato e poi contrapposto in un muro contro muro alla carta. Il modello è stato quello della sfida e non dell’integrazione: giornali o siti, senior o junior. È mancata visione e coraggio, cercando di far tornare i conti soltanto eliminando e non ricreando un ruolo diverso, in una sottrazione reale e morale che ancora purtroppo non è finita.

Giuliana Parabiago, Pr e marketing consultant di Pitti Immagine e Sisposaitalia. Già direttore di Vogue Sposa e Vogue Bambini

 

Come restare indipendente dai pool pubblicitari E vivere (quasi) felice

 

Non nacqui critico, lo divenni, e nel diventarlo ho realizzato che coltivare lateralità, limitare frequentazioni e godere una condizione di fedifraga infedeltà in tema di affiliazioni lavorative sono manna e viatico. Il mio percorso professionale si è avviato nel 2001, come corrispondente di un bimestrale parecchio à la page. Pochi spiccioli: abbastanza per vivere nella mia Ragusa, una inezia per Milano. Mi adattai, rimanendo a casa. Agli occhi implacabili di fashionisti lesti nel giudizio e nella catalogazione brutale, ero un misero provinciale. Mantenermi isolano e isolato praticando il freelancing, invece, fu da subito scelta di vita e strategia per rimanere vocalmente attivo, agile nel reagire alle decimazioni ed esecuzioni con le quali negli anni si è ridefinito il panorama editoriale. Continuo a praticare la dislocazione, perchè la tecnologia è dalla mia parte, la curiosità pure, e la scrittura non conosce luogo. Lentamente, ho costruito un solido network. Da Ragusa, sempre. Ho trovato il mio tono, e piattaforme diverse con lettorati diversi con i quali conferire. La possibilità di parlare a pubblici antitetici è impagabile. Certo, un cambio repentino alla direzione mette in pericolo il mio status di collaboratore, ma è una incertezza con la quale sono abituato a convivere, cui sopperisco sommando collaborazioni numerose e di vario genere. Lo stipendio fisso è un miraggio, ma non essendo contrattualizzato da nessuno, per sempre scribacchino a borderò, posso anche curare mostre e libri o dedicarmi ad altro, magari pensando al piano B visti i mala tempora, lo sgretolarsi del valore del lavoro giornalistico, le critiche accolte con invariabile sdegno da marchi che subito esibiscono il muscolo, le pubblicazioni affidate a pallidi pool asserviti alla raccolta pubblicitaria e i giornali di moda trasformati infine in organi di consenso dove nemmeno mischiare i look è lecito. Questo decadimento fa paura e rattrista, ma non mi spaventa, perché ormai l’abitudine al salto mortale è radicata, e adesso è pure diventata pratica collettiva. È iniziata la lotta per la sopravvivenza, e solo the fittest la sfangheranno. Da qualche parte, nel mentre, la critica si può fare ancora. Vivo sempre meno Ragusa. Ho casa a Milano, ma non tutti lo sanno, quindi mi fingo sull’isola anche quando sono in città. La chiamo indipendenza, valore che il sistema attacca senza tregua. 

Angelo Flaccavento, Curatore, critico per Il Sole 24 Ore, Style.com, The Business of Fashion, System, Vogue Italia

 

I brand diventano media Company. Tranquilli Il lavoro aumenta

 

Nel settembre del 2018, Diego Della Valle m’invitò da lui per una chiacchierata. «Le aziende co­me la mia – disse – a breve si trasformeranno tutte in media company». Sapevo che a Londra, da Harrods, avevano nominato una Editor-in-Chief, e sapevo che Hermès aveva pescato dalla redazione di Vanity Fair America qualcuno adatto per creare contenuti. Ma in Italia nessuno si era ancora spinto in questo campo. Stava per farlo lui, e mi offriva un nuovo lavoro.

Il digitale ha dato voce e visibilità a tutti (almeno agli inizi: ora quella visibilità tocca pagarla salata) e gli equilibri sono saltati. In ordine cronologico, quindi, prima è toccato alla musica, poi alla stampa. E nella moda? Le aziende da tempo auto-producono contenuti da usare sulle proprie piattaforme digitali, raggiungendo direttamente i propri “seguaci”. Quindi, la parola chiave è “seguaci”: negli ultimi anni, le motivazioni di acquisto del pubblico sono cambiate e si predilige il senso di appartenenza a una “famiglia” (un brand), rispetto al possesso di un singolo prodotto. Le sfilate nella moda sono più degli happening dove “famiglie” intere (famiglie, cop­pie di fatto, gruppi di amici, o addirittura colleghi) si ritrovano intorno ai valori di un marchio. 

È senso di appartenenza. C’è un dettaglio: i progetti culturali promossi dai marchi di moda sono aumentati a dismisura: le stesse “famiglie” sono felici di partecipare a mostre, dibattiti, talk: da una parte creano opportunità di condivisione e quindi calore, dall’altra disegnano in maniera netta i confini culturali di un marchio: sta solo a noi decidere in quale saltare dentro. Il lusso oggi riguarda la cultura, non il prezzo, e i progetti culturali rendono i marchi “cool”, aggettivo logoro che però definisce ciò che oggi non ha prezzo: un club esclusivo di persone, di valore intangibile, al quale proprio per questo si vuole appartenere. Le prossime generazioni si divideranno tra quelli che cercano e producono cultura e quelli che la consumano; i marchi saranno sempre più alla ricerca di professionisti, cioè di giornalisti, che abbiano un’esperienza specifica nella creazione di contenuti e di progetti culturali.

PS: il ruolo dei giornali resta fondamentale, ovviamente. Ma per chi si dispera, sappia che là fuori, entro breve, ci sarà un sacco di lavoro da fare.

Michele Lupi, Men’s Collection Visionary Gruppo Tod’s. Già direttore di Rolling Stone, GQ, Icon, Flair e vicedirettore di Panorama

 

L’epoca incerta dei coordinatori editoriali

 

L’ultimo in ordine di tempo a rassegnare le dimissioni è stato Emanuele Farneti da Vogue Italia. «Una grande opportunità e una grande avventura» ha scritto, ringraziando, sul profilo Instagram della testata. E automaticamente mi ha riportato alla memoria la frase che, nel 1989, mi disse il direttore delle News di Telemontecarlo, inviandomi a Milano a seguire la moda.«Sarà una grande avventura. Tu cambierai, invecchierai, ma davanti a te troverai una bellezza sempre nuova, una creatività giovane. Dovrai raccontarle con equilibrio». E così è stato o, almeno, spero. Per oltre vent’anni, prima “TMC” poi “La7” ha trasmesso nell’ordine il programma Ladies and Gentlemen, quindi  È… Moda, infine M.O.D.A., acronimo di Moda, Opinioni, Design Attualità. Oltre mille puntate con la formula dell’infotainment, quell’informazione-spettacolo che diversi anni dopo sarebbe divenuta il cuore e il motore dei social. In quegli anni, la televisione ha giocato un ruolo importante nella partita della moda. Quello che il mio direttore non poteva prevedere allora, è che quella grande avventura in cui passerelle e giornali di moda correvano insieme, e ai quali noi della tivvù timidamente ci accostavamo, sarebbe entrata in zona critica trenta e passa anni dopo. Strano a dirsi, e soprattutto a capirsi: da sempre è l’identità, la personalità, una delle carte vincenti del Made in Italy. E questo vale sia che si parli di prodotti di stoffa, di giornali in carta, di programmi televisivi. La mossa che ha portato alle dimissioni in blocco dei direttori del Gruppo Hearst Magazines Italia, tallonati da Condé Nast, sembra andare su una strada contraria: un coordinatore chiamato a reggere più fili tra diversi Paesi che hanno gusti, storie, culture, protagonisti e, un tempo, anche giornali diversi. Sarà vero che il Covid ha reso il mondo più difficile, ha tagliato di netto introiti, diminuito vendite, affannato la pubblicità. Sarà anche altrettanto vero che digitale ha reso la vita dei prodotti cartacei più faticosa. Resto, però, certa che la parabola dell’uomo solo al comando non abbia mai portato troppa fortuna a nessuno, in nessun tempo e in qualunque settore. E poi, tanti fili in una sola mano rischiano di imbrogliarsi in un nodo inestricabile.

Cinzia Malvini, Autrice e giornalista - La7  

 

Il prezzo troppo alto del ricatto

 

Il mondo dell’editoria sta riassestando la compagine globale, nel frenetico tentativo di trovare LA direzione. La rivoluzione del web e dei social, quella che molti avevano giudicato come una bolla destinata a scoppiare e a perdersi nell’oblio, ha investito tutto il settore, rivoluzionando soprattutto la fruizione del pubblico. Dove si andrà è tutto ancora da capire, come riconquistare gli utenti è il grande obiettivo; quali contenuti andranno prodotti è ancora da decidere. Qual è il lato positivo di tutto questo? Nel mondo del fashion si era persa completamente la critica di moda, noiosamente sostituita da una cronaca asservita ai poteri alti delle maison. Dietro il separé di questo ricatto silenzioso si è inceppato l’ingranaggio. E ora? Come vorrei che fosse? Libera come il web, dove tutti possano avere una voce, anche sbagliata, ma dove i professionisti preparati possano esprimere il proprio giudizio scevro dall’imposizione opportunistica del ritorno economico. La creatività assoggettata alle rigide regole del mercato muore. 

Paolo Stella, Creative director, digital creator e scrittore

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