Una sfilata di moda a Johannesburg in occasione del Gay pride 2019 (Ansa)

Il foglio della moda

Moda di lotta e di coscienza

Fabiana Giacomotti

Dalla autoreferenzialità intollerante di vent’anni fa all’impegno a favore di tutte le cause del momento. Sono in gioco budget miliardari e una nuova pletora di clientes. Come e perché l’industria dello stile ha deciso di insegnarci a stare al mondo

Se esistesse un’olimpiade delle buone cause e delle storture della società da raddrizzare, alcuni marchi della moda occuperebbero il podio intero. Ormai non c’è tematica per la quale non mettano a disposizione risorse e uffici stampa: inclusione, sostenibilità ambientale, sostenibilità etica, violenza contro le donne, difesa degli animali in generale e nello specifico, causa Lgbtqia+, arte, musica, musei negletti, critici d’arte astuti, siti archeologici abbandonati and whatever. Non è più e nemmeno correttezza politica: è una gara all’acquisizione di meriti presso i pubblici più disparati, in cui la potenza economica gioca forse più di sempre un ruolo essenziale. Come è facile intuire, si può essere straordinariamente impegnati sul proprio territorio, ma se si destina, come la maggior parte dei grandi gruppi, una cifra compresa fra l’1 e il 2 per cento del proprio fatturato miliardario al no profit (il solo programma Gucci North America Changemakers Impact Fund nel 2020 ha distribuito un milione di euro a sedici organizzazioni locali per programmi a favore dell’inclusione), si resterà nella memoria “positiva” di un pubblico ben più vasto.

 

La multinazionale dominus interpreta un ruolo predominante nella massimizzazione e nella rappresentazione della bontà, ed è come ovvio circuita e blandita da una pletora di clientes. Mentre sempre più spesso anche a noi che di mestiere facciamo informazione capita di ricevere la telefonata dell’azienda X che chiede se si sia a conoscenza di una “associazione seria” a cui devolvere parte del ricavato di una certa nuova linea, perché l’ufficio stampa non si dice certo di riuscire ad ottenere l’“adeguata copertura della notizia” senza dare al pubblico anche un motivo per commuoversi o felicitarsi, di contro le multinazionali della moda si sono trasformate nell’Eldorado di chi avrebbe buone idee ma è privo di denari per metterle in pratica, in un gioco di scambio in cui alla “coerenza” del progetto presentato rispetto al “posizionamento di brand” risponde la necessità dell’altro di adattarvisi, e talvolta perfino di inventarselo per salvare situazioni al tracollo.

 

L'installazione con i colori del Pride realizzata da Zalando, piattaforma online di moda esposta in piazza Gae Aulenti a Milano (Ansa) 

 

Nella pianura padana, gli agriturismi fiaccati dalla pandemia cercano agganci con i marchi della moda, nella speranza di attrarli con le file di alveari o le colture biodinamiche; una giovane filosofa piacentina con tenuta di famiglia disgraziatamente molto estesa, al momento sta studiando le piante tessili, chissà mai che a qualcuno venisse in mente di volere della canapa tessuta in casa come nel Medio Evo. Intendiamoci: rispetto agli anni neanche troppo lontani in cui stilisti e aziende potevano permettersi di bastare a loro stessi ed essere intolleranti, esclusivi, favolosi e insopportabili (vedere intervista a fianco), preferiamo questi tempi in cui possiamo prenderci il lusso di rivolgere alla comunità modaiola e a noi stessi, qualche quesito sulle motivazioni per le quali la moda sposi senza soluzione di continuità e a prescindere tutte le cause del momento. Che la moda non faccia vestiti, ma sia segno interpretativo del proprio tempo, è chiaro anche al meno esperto di questo settore: esalta e amplifica ciò che ritiene interessante, e nulla sfugge alla sua intelligenza della storia, che reinterpreta e rimanda in segni e forme anche sofisticatissime agli occhi stupiti del suo spettatore, prima di trasformarlo in cliente e di rivestirne il corpo con la propria “firma”, marchiarlo di sé. La moda è cambiata e si è fatta più attenta alle istanze sociali perché non avrebbe potuto fare altrimenti a fronte di un mondo che non è più disposto a perdonarle niente, e ha pagato a caro prezzo i propri errori.

 

Come ci ha detto lo stilista afro-americano Brett Johnson pochi giorni fa mentre accennavamo stupiti ai due incidenti sul “blackface” occorsi a Prada e Gucci un paio di anni fa, che segnarono uno spartiacque nel sistema, “se si rappresenta un marchio globale non si possono ignorare certe sensibilità, anche nella massima buona fede che era certamente il loro caso”. E tutti hanno cambiato rotta, imparando a prosperare anche fra fattori ostili e contraddizioni, rischiando pure di perderci, inscenando anche una perfetta dissimulazione, come accadde per le razzie nelle boutique durante gli scontri del Black Lives Matter seguiti all’assassinio di George Floyd: nessun brand fiatò per le vetrine spaccate e la merce saccheggiata e gli uffici stampa minimizzarono i danni; poi tutti si affidarono in silenzio alla polizia per recuperare, giustamente, il maltolto. Dunque, se è pur vero che la moda non avrebbe potuto scegliere un’altra strada se non quella dell’impegno per non rischiare di scivolare progressivamente nell’irrilevanza o nel rifiuto (come è fin troppo noto, è un settore che inquina poco meno del petrolio, che non sempre ha prodotto rispettando il diritto del lavoro e che per secoli ha basato la propria gloria sull’esclusività, tutti temi contrari allo zeitgeist), d’altro canto è a questo mondo a cui paghiamo parte dei nostri sogni di eterna giovinezza e successo che dobbiamo oasi naturali e grandi parchi recuperati in Italia e Africa (Zegna e Gucci), cattedrali restaurate (remember la gara un filo smargiassa a-chi-offriva-di-più fra le multinazionali del lusso francesi per la ricostruzione di Notre Dame dopo l’incendio?), progetti di inclusione (Prada e ancora Gucci), grandi mostre, ma anche prese di posizione per cause sociali e civili per le quali tutti rischiano in solido, e nemmeno poco: lo scorso marzo, H&M è stato rimosso dalle grandi piattaforme di e-commerce cinesi, e ha subito minacce dal governo e invettive dalla Lega della Gioventù comunista, per aver reso noto che non avrebbe più acquistato cotone dello Xinjiang dopo le sanzioni occidentali contro la Cina per la discriminazione della minoranza musulmana uigura.

 

Un mese fa, la Duma ha chiesto invece che venisse cancellato dai social lo spot di Dolce&Gabbana “love is love” che, oltre a promuovere il brand, mirava a sostenere l’associazione Trevor Project, attiva da anni nella prevenzione del suicidio di giovani Lgbtqia+. Insomma, se su temi pur fondamentali come la salvaguardia dell’ambiente sono tutti, almeno in linea di massima, d’accordo, cause che intersecano credenze religiose, tradizioni, culture, si trasformano invece spesso in terreni minati in cui la moda sempre con la M maiuscola, ossessionata dal nuovo bisogno di rivelarsi utile e procreativa, finisce per doversi muovere in un raggio d’azione limitato a quelle comunità e a quei Paesi dove il suo discorso è non solo accettato, ma favorito e reso indispensabile. In estrema sintesi: quel che si può discutere liberamente in Europa o negli Stati Uniti, pur fra polemiche accese e improperi fra bande di attivisti social, si scontra invece con le leggi e la morale di molte altre nazioni, in particolare delle teocrazie islamiche ma anche in Cina e in Russia, che entrambi restano però due fra i maggiori mercati per l’export della moda italiana e francese. Perché, dunque, sposare argomenti controversi, quando la reazione può essere una causa, un boicottaggio, un incidente diplomatico?

 

Qualcosa ci dice che la moda, spinta all’inseguimento dello spirito del momento, bisognosa di trovare una giustificazione morale alla propria infinita riproducibilità industriale, potrebbe invece e addirittura trovare gloria nel martirio, una maggiore esaltazione della propria integrità nella perdita economica per la Giusta Causa. E talvolta si tratta di decine di milioni di euro: una strategia che non tutti, ovviamente, possono permettersi di perseguire. Dunque, se per qualche tempo noi del Foglio della Moda abbiamo accarezzato l’idea di raccogliere e pubblicare una mappatura della bontà fashion, divisa addirittura per segmenti, dopo lungo riflettere abbiamo desistito, perché avremmo rischiato di favorire smaccatamente alcuni marchi a discapito di altri, e anche di sminuire quella che può essere invece una presa di posizione unica e univoca, ma non per questo meno efficace o sincera. Prendete Ecoalf: produce abiti da recupero di materiali inquinanti come bottiglie in Pet, reti da pesca, pneumatici usati, capsule di caffè post-consumo e cotone post-industriale; non c’è un solo convegno internazionale sulla sostenibilità che non faccia carte false per avere fra i relatori il suo fondatore, Javier Goyeneche (che non definiremo anche un gran bel ragazzo perché ci sta simpatico e avrete sentito dire che, in linea con il periodo del Terrore politicamente corretto che stiamo vivendo, è insorta per voce di un sociologo americano anche la gran massa dei brutti, accusando la bellezza di essere discriminante; vorremmo fosse ancora in giro Giacomo Leopardi per rispondergli); eppure, la spagnola Ecoalf non gode di un’oncia della riconoscibilità sul tema di Prada, che invece ha mezzi e team dedicati tanto alla ricerca quanto alla sua diffusione.

 

Ci sono gli imprenditori che sviluppano progetti di sostegno e riqualificazione professionale a favore di comunità locali svantaggiate, vedi il gruppo Arav guidato da Mena Marano con le donne campane: si tratta di un tema che difficilmente varcherà i confini regionali, e che eppure è fondamentale per la realtà dove il gruppo è nato e opera. Le comunicazioni, i filmati, le iniziative sono tali e tante, e diffuse con una costanza e una rapidità così eccessiva, che nel momento in cui Tod’s comunica, come ha fatto meno di una settimana fa, di aver terminato la seconda fase del progetto di restauro dell’Anfiteatro Flavio, il Colosseo, riaprendo gli ipogei, ci pare evochi un’iniziativa lontanissima nel tempo; eppure quella di Diego Della Valle fu la prima iniziativa di questo genere su vasta scala e dieci anni fa, quando venne annunciata, suonò rivoluzionaria. Poi ci sono progetti legati così strettamente a quella che un teorico del marketing definirebbe la reason why di un marchio da non poter essere nemmeno considerati tali, ed è il caso di Brunello Cucinelli. Non abbiamo dimenticato la battuta con cui, molti anni fa, Bruno Vespa pose a Porta a Porta qualche dubbio sulle ragioni del suo impegno per il territorio e la sua comunità, evocando provocatoriamente san Francesco.

 

Eppure, gli anni hanno dimostrato che, sebbene l’imprenditore umbro non faccia sconti a nessuno sull’impegno che richiede nel lavoro, in effetti ha restaurato il borgo di Solomeo dove vive e ripiantumato la vallata che lo circonda, restituendola al godimento di tutti dopo aver acquistato e abbattuto un’infinità di capannoni abbandonati; in effetti riconosce da anni una parte dei profitti ai dipendenti e non solo agli azionisti; in effetti ha restaurato la Torre Campanaria del Palazzo Comunale di Norcia; in effetti non ha chiesto un euro di sconto ai fornitori durante la pandemia. Insomma, un impegno personale, reale e protratto nel tempo. Come osserva con la sua voce pacata Carolina Cucinelli, figlia minore di Brunello che va assumendone progressivamente le deleghe nella comunicazione, «non stiamo facendo una gara, e credo che ciascuno di noi debba sostenere le cause che sente più vicine alla sua sensibilità. Noi crediamo di essere sempre stati inclusivi e la nostra storia dimostra che abbiamo sempre portato rispetto a tutte le comunità, ma le nostre stesse origini ci hanno portati su un’altra strada, che è quella della difesa dell’ ambiente, ormai un prerequisito per i giovani della mia generazione, e delle relazioni fra persone, di quella che noi chiamiamo la sostenibilità umana e che non necessariamente si manifesta in grandi gesti, ma anche solo in una mail spedita in meno e un incontro di persona in più, adesso che possiamo di nuovo permettercelo».

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