(Lapresse)

Il Foglio della Moda

Più star in passerella che nei consigli di amministrazione

Erika Andretta

Nonostante alcuni segnali positivi, secondo la Consob le donne in cda rappresentano un mero 2% dell'industria della moda. Sul versante del manifatturiero il covid-19 potrebbe aver aggravato la disparità in termini occupazionali

 

Per sua vocazione storica, la moda è da sempre un settore che consente emancipazione, autonomia e indipendenza al genere femminile, perché è caratterizzato da una presenza incisiva di donne nei posti di lavoro. Nonostante questo, in Italia ci sono ancora molti limiti per le lavoratrici nel mondo della moda, a livello di disparità salariali, minor accesso ad opportunità di avanzamento di carriera e ai ruoli manageriali. Come evidenzia lo studio “Supporting Women in the Luxury Supply Chain: A Focus on Italy”, condotto da Kering nel 2019 su un campione di 189 aziende nella filiera dei marchi di lusso italiani del gruppo, la parità di genere è ancora un traguardo lontano.

Sebbene l’occupazione femminile si attesti al 63 per cento nei marchi di lusso, infatti, la presenza di donne nel management dei brand raggiunge solo il 25 per cento. La disparità di salario e di avanzamento di carriera è oggetto anche del Social Responsibility Report di Camera Nazionale della Moda Italiana, condotto nel 2020 su un campione di 45 aziende in quattordici regioni italiane, per un totale di oltre mille lavoratori intervistati, in cui la percentuale di occupazione femminile raggiunge il 58 per cento. Il gender gap italiano è un fenomeno in parte riconducibile al retaggio culturale patriarcale ancora radicato nel nostro paese, ma anche all’impostazione a conduzione familiare di molte aziende.

Secondo i dati Consob, a fine 2020 la partecipazione delle donne nelle governance di società quotate ha raggiunto il 39 per cento degli incarichi di amministrazione e di controllo, segnando il massimo storico per gli organi amministrativi. Con riguardo al ruolo svolto, solo in quindici società, rappresentative di poco più del 2 per cento del valore totale di mercato, le donne ricoprono il ruolo di amministratore delegato. Il divario di genere nel mondo del lavoro è forse il tema che tocca più il nostro paese in questo momento, anche alla luce delle ripercussioni economiche della pandemia che hanno penalizzato settori, come il turismo e la moda, caratterizzati da una marcata presenza lavorativa femminile.

 

Secondo il Rapporto sulla Competitività dei Settori Produttivi 2021 di ISTAT, infatti, la filiera tessile-abbigliamento-pelli è il comparto che nel 2020 ha risentito maggiormente del contesto pandemico, registrando un calo di fatturato fra il 15 e il 30 per cento e una contrazione dell’export pari al 19,5 per cento. La fragilità del comparto industriale risulta evidente anche a livello territoriale ed è strettamente correlata al grado di specializzazione dell’economia locale. In particolare, le ripercussioni sul comparto industriale del tessile e abbigliamento si vedranno maggiormente sulle regioni con maggiore intensità di occupazione nel settore come la Toscana, le Marche, l’Umbria e il Veneto.

Sebbene in questo momento non sia ancora possibile individuare con precisione le tendenze che correlano la competitività della filiera moda con l’occupazione femminile, o determinare specificatamente i comparti in cui si registrerà un impatto maggiore, ci sono già degli indicatori chiari su come la pandemia stia allargando il divario di genere. Solo nel mese di dicembre 2020 i dati ISTAT mostrano che su 101mila nuovi disoccupati, 99mila sono donne, mentre secondo Eurostat l’occupazione femminile in Italia nel 2020 è scesa al 49 per cento, ben 13,5 punti sotto la media europea. Occorre quindi tutelare con urgenza il mondo professionale femminile, con un occhio di riguardo ai settori più a rischio, fra cui la filiera della moda e del turismo, per garantire parità di genere ma anche, e soprattutto, per non perdere risorse preziose che possono contribuire al rilancio del paese.