Micaela le Divelec Lemmi (Ansa)

Interviste via Zoom

«Non si cresce lamentandosi»

Fabiana Giacomotti

La famiglia Ferragamo si concentra sulla holding, la ceo Micaela le Divelec Lemmi prende davvero le redini
 

Quando abbiamo ricevuto la comunicazione ufficiale dell’abbandono della presidenza da parte di Ferruccio Ferragamo e della nomina del fratello minore Leonardo a “presidente non esecutivo”, non potevamo credere ai nostri occhi. Il paradigmatico “passo indietro” dei Ferragamo nella gestione diretta dell’azienda, alla fine, c’era stato. La nota diceva cose molto attese e molto condivisibili. Innanzitutto che Ferruccio Ferragamo si sarebbe “concentrato sulla Finanziaria”, cioè la holding azionista di controllo dell’azienda con il 54,28 per cento del capitale, dirigendo “e coordinando l’individuazione, la promozione e il monitoraggio dei valori fondanti e identitari dell’azienda” e “la valorizzazione dell’autonomia strategica e di gestione della Salvatore Ferragamo”.

 

Quindi, lasciava intuire che Leonardo Ferragamo, amministratore delegato della Palazzo Feroni finanziaria a cui fanno capo gli alberghi e le proprietà immobiliari e agricole, avrebbe assunto incarichi rilevanti in cda, ma non tali da determinare l’indirizzo gestionale quotidiano, finendo insomma per replicare a proprio nome la celebre e fatale chiosa «il signor Ferruccio ha detto di no», che per anni è risuonata negli stretti corridoi del palazzo medievale affacciato sull’Arno dove i Ferragamo hanno sede, uffici, negozio e il museo gestito con molta competenza da Stefania Ricci (a destra una sala dell’allestimento della mostra “Seta”, in programma fino ad aprile 2022).

A questo punto, dunque, e fino all’approvazione del bilancio al 31 dicembre 2023, i due manager di eccezionale livello che i Ferragamo avevano già in casa hanno, almeno sulla carta, le mani libere. Uno di loro, il vicepresidente esecutivo Michele Norsa, è lo stesso uomo che lo scorso decennio guidò la quotazione dell’azienda, ed è noto come uno dei più instancabili contrattatori di accordi commerciali a livello mondiale.

Micaela le Divelec Lemmi, amministratore delegato, è invece donna di finanza che, su modello e supporto prima di Domenico De Sole, poi di Patrizio di Marco e infine di Marco Bizzarri, insomma di un universo-Gucci vissuto attraverso tre diversi modelli gestionali lungo l’arco di un ventennio, ha saputo appassionarsi a ogni fase della produzione di moda e anche, diremmo, di porcellane fini, avendo guidato sempre per il gruppo Kering il rilancio di Richard Ginori per le prime, difficili stagioni. Fiorentina di origine bretone, sposata «con un uomo che mi ha sempre sostenuta» e che temiamo sia ancora una condizione indispensabile per fare carriera senza dover scegliere la solitudine come contropartita, le Divelec ha due figli di cui uno, il ventenne Niccolò Chiorra, è un portiere di belle speranze che il sito della Fiorentina dichiara “ceduto al Grosseto con diritto di riacquisto”, con quel gergo padronal-schiavista del calcio che non condivideremo mai.

 

Con i suoi occhi azzurrissimi e il mento sempre leggermente alzato in segno di sfida o forse di protezione, le Divelec Lemmi è entrata in Ferragamo nell’aprile del 2018, dapprima come direttore generale; sulla tolda di comando è salita tre mesi dopo e vi è rimasta, con uguale incarico ma e ora in condizioni diverse. Il marchio Ferragamo è tornato insomma sotto la guida di una donna dopo Wanda, vedova del fondatore, e Fiamma, la figlia geniale e troppo presto scomparsa, e adesso che ci troviamo davanti al solito Zoom, lei sotto le volte del palazzo, noi alla solita scrivania dello studiolo milanese, iniziamo a parlare di quelle cose che gli uomini definiscono cose da donne. Famiglia, figli, sensi di colpa per averli cresciuti, molto, al telefono, incredibile stupore per non averne fatto dei delinquenti, ma anzi guarda. Forse basta il buon esempio, chissà. Comunque, quando li si vede superare i vent’anni pieni di voglia di fare e con obiettivi ben precisi, si finisce per domandarsi se valesse la pena di macerarsi nel dubbio e non sarebbe stato invece meglio dedicare quelle energie ad altri scopi. Che di sicuro, almeno nel caso della ceo di Ferragamo, non sono quelli di lamentarsi.

Dice di essere una donna a cui “piace ascoltare” e di considerare la “diversità di opinioni” come un elemento arricchente nelle dinamiche di gruppo, ma se vi capitasse di incontrarla, evitate di farle ascoltare delle lagne. «Credo che ognuno di noi sia arbitro del proprio destino», dice: «Quindi, prima di lamentarsi bisogna essere sicuri di aver messo in campo tutte le forze e tutta la determinazione possibili per riuscire a fare quello che si ha in testa e a portare risultati». E per farlo «credo che la prima cosa sia essere in pace con se stessi». Negli organigrammi del sistema moda, con poche eccezioni di cui “Ferragamo fa parte”, le donne si trovano con facilità negli uffici legali e nella finanza, posizioni stanziali, cioè privi della condizione accessoria di dover tenere la valigia sempre pronta, e poco nel merchandising e nel cosiddetto “prodotto”, per la ragione opposta. La valigia. «In ambito prodotto o creativo, la scelta di sospendere il lavoro per la maternità o percorsi familiari a un certo momento della carriera diventa irreversibile».

Il Covid ha cambiato le cose anche in questo campo, e in meglio. Lo sforzo di creatività e organizzazione imposto dalla chiusura dei confini e dalle limitazioni ai viaggi ha, paradossalmente, favorito le donne: «Svolgere una parte significativa del lavoro in remoto apre una serie di scenari e opportunità che fino  a qualche anno fa non consideravamo nemmeno possibili. Bisogna capire come ci riorganizzeremo nel post Covid, ma credo che la gestione degli showroom digitali a distanza resterà. Torneremo anche alle sfilate in presenza, all’esposizione negli showroom: il prodotto di lusso, che è frutto di alta manifattura, ha bisogno di essere visto e toccato».

 

Poche settimane fa, è stato avviato all’uscita il direttore creativo Paul Andrew, ex creatore di calzature molto innovative chiamato da James Ferragamo, uno dei figli di Ferruccio, a occuparsi appunto di quelle, e poi assurto per motivi ignoti a un ruolo di direzione creativa per cui forse non era adatto  Par di capire che per qualche tempo non arriverà nessuno: «Abbiamo fatto una selezione, ma per adesso vogliamo focalizzarci sulla definizione e la condivisione dei valori di Ferragamo e la definizione strategica del suo futuro. Una delle domande che dobbiamo porci è quale sia lo spazio che si può lasciare completamente al direttore creativo e quanto invece ci debba essere una gestione di brand».

 

Ferragamo vive le difficoltà di tutte le grandi aziende cariche di storia e di un’eredità culturale potente: non riesce a non farsi schiacciare dal proprio passato. A differenza, per esempio, di Vuitton, non è ancora riuscita a lasciare un’impronta nel settore abbigliamento, mentre le stesse calzature, pur di qualità e comfort superiori a quelle di quasi tutti i rivali della zona Quadrilatero o Madison Avenue, devono ritrovare appeal. Chiediamo a le Divelec se ci sia davvero bisogno di continuare a produrre abiti, cappotti e camicie, e non sarebbe meglio, piuttosto, concentrarsi sulle calzature e la pelletteria. Conosciamo già la risposta, inevitabile. Non si può avere e mantenere un fatturato, pure attualmente in flessione, vicino al miliardo di euro (916 milioni per la precisione) contando sui soli accessori. «Ferragamo è considerato un brand di lifestyle, e deve avere molti argomenti per attrarre e coinvolgere i clienti. Piuttosto», dice «bisognerà capire come raccontare valori e cultura di marchio in chiave contemporanea ai clienti più giovani», che Ferragamo ha saputo conquistare, per esempio, nel sud est asiatico, dove la media anagrafica dei clienti è inferiore ai trent’anni, ma non ancora in Europa e negli Stati Uniti che, se si pensa alla prima boutique del fondatore a Hollywood, sono la nazione di origine del marchio.

 

«Dobbiamo far sì che i giovani italiani ed europei, 25-30 anni, guardino al brand in termini prospettici, non come il marchio che hanno indossato le loro mamme o le zie, ma come un riferimento anche per i loro valori». Li elenca: «Far parte di un gruppo e riconoscersi come tali», un tema che a Ferragamo, azienda familiare, è molto affine; quindi, l’eredità culturale, «intesa come artigianalità» e come «tipologia di mestieri che stanno tornano a essere rilevanti» e vorremmo disperatamente crederle perché ci sembra che i ragazzi innamorati dell’arte della modelleria non siano poi moltissimi e che forse per appassionarli bisognerebbe lanciare un equivalente calzaturiero di Master chef. Sorride.

 

Passa al tema dei temi del momento, la sostenibilità, elencando le iniziative di riduzione dell’impatto energetico, e della resilienza, accennando non solo alla storia del fondatore, ma anche alla capacità di Ferragamo, marchio italianissimo ma internazionale fin dal debutto, di «fare leva su sensibilità e culture diverse, con il massimo rispetto». Pochi giorni fa, Ferragamo ha lanciato la piattaforma digitale Sustainable thinking con l’obiettivo di «connettere i progetti e le attività responsabili della maison in un’unica dimensione concettuale, e da cui prenderanno vita nuovi spunti di conversazione grazie a un network internazionale di contributor con diverse sensibilità ed esperienze». Siamo andati a cercare la piattaforma sul sito: in coda a un bellissimo manifesto di intenti, abbiamo trovato un link al lavoro di Sarah Mower, una serie di pensieri di James Ferragamo, la storia della borsa Top handle e di un orologio. Aspettiamo il seguito.