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Gianni Agnelli era un James Bond senza la smania cafona del Martini agitato

Fabiana Giacomotti

Non solo orologio sopra il polsino, polacchini e abiti. Quel che è sempre sfuggito agli italiani dello stile dell'Avvocato è l’ironia

Pronti a sopportare settimane di rievocazioni dell’orologio fissato sopra il polsino e di disamine sui polacchini ortopedici che si resero necessari dopo il famigerato incidente giovanile in Costa Azzurra (venivano realizzati da un artigiano, in due modelli, ma l’abilità di Luca di Montezemolo li fece assimilare vox populi alle Tod’s, lanciandole in tutto il mondo e cementando la sua amicizia imperitura con Diego Della Valle), possiamo anche dire che quel che è sempre sfuggito agli italiani dello stile di Gianni Agnelli è l’ironia. Forse perché ne siamo, in genere, drammaticamente sprovvisti, e più che il divertimento cerchiamo una platea e un applauso, cioè puntiamo allo standing di Agnelli senza però possedere quell’uso di mondo, quella malizia nell’invertire ruoli e precedenze che lui, l’Avvocato che avvocato non fu mai, portava inscritto nel dna e che non basta un vestito per ottenere, neanche le camicie genovesi di Finollo a seicento euro l’una.

   

“Gianni Agnelli aveva una vena sperimentale che spesso lo induceva a scardinare i paletti della tradizione”, raccontava Gae Aulenti in un libro ossessivamente sfogliato dai wannabe, dopo avergli affollato la galleria della casa di Brera con un gregge di agnelli in legno e lana in scala 1:1, l’installazione “Moutons” di François Xavier Lalanne. Ridere, senza malinconia.

   

L’orologio sopra il polsino, forse è arrivato il momento di spiegarne la ragione, non era un semplice vezzo, ma la sprezzatura di un uso contadino delle valli del cuneese di cui gli Agnelli erano originari, cioè l’assunzione in chiave chic, e dunque e appunto sprezzante, di un uso popolare ma legato alla propria storia. Ribaltare i ruoli, il senso delle cose e dei rapporti: l’orologio e la traversata del 1976 sull’Agneta con il cuoco a fianco per andare a stringere il famigerato accordo con Gheddafi rispondono alla stessa forma mentis, quella del Giaurro byroniano. Il pirata, come lo descrivevano i giornali americani nella celebre estate della visita di Jackie: “More Caroline, less Agnelli”. Gianni Agnelli era l’ideale di ogni maschio nel mondo; il James Bond incarnato ma senza la smania cafona del Martini agitato. Una casa ovunque e ovunque anche una garçonnière, ma arredata con le statue di Henry Moore e i dipinti di Balthus che lui stesso avrebbe imposto agli occhi del mondo. Per due generazioni, tutto il mondo occidentale ha modellato il proprio stile su quello di Villar Perosa, a partire dagli americani che mai mancavano di ricordare le ascendenze americane di “Gianni”, benché tendessero a dimenticare che nel 1945 non aveva partecipato al funerale di sua madre, Virginia Bourbon del Monte, e non sapessero che alla fine degli Anni Ottanta aveva fatto naufragare il film televisivo che Luchino Visconti stava sviluppando sul successo editoriale del libro autobiografico di Susanna Agnelli, “Vestivamo alla marinara”, dove veniva esplorata la relazione di quella vedova giovane e bellissima con Curzio Malaparte. Ma anche l’avessero saputo, non sarebbe cambiato niente.

   

In queste ore di rievocazioni salivari ma anche di furiose accuse contro “i miliardi di stato” ottenuti dagli Agnelli per la Fiat pre e post qualunque guerra, crisi o crollo dei mercati, ci tornano alla mente gli Anni di Piombo, quando l’Avvocato passeggiava sotto i portici di Torino a piedi nonostante le minacce delle Brigate Rosse, salutato da tutti, operai e borghesia, perché una cosa era la Fiat e un’altra era lui, il principe che l’Italia non aveva mai avuto. Troverete ancora centinaia di persone pronte a dire il peggio sulla gestione della fabbrica, neanche una su di lui. Aveva comprato la Ferrari nel 1969 perché non era pensabile che cadesse nelle mani della Ford; adorava il tracciato da cardiopalma del Cresta Run; alimentava la passione per i tuffi dall’elicottero nel mare della Costa Azzurra, prassi catartica con cui si liberava dalle ansie della settimana per iniziare il week end e che Edoardo, quel figlio ipersensibile e intellettuale che gli era toccato in sorte, invece detestava. Lo imitò una sola volta, molti anni dopo, quando lo trovarono sotto il viadotto della Torino-Savona all’altezza di Fossano, nel cuneese delle origini della famiglia, irriconoscibile dopo quel volo di ottanta metri. “Dio, devi avere un sacco di coraggio per buttarti da quel ponte” disse allora Gianni Agnelli, e poi iniziò a morire.

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