Ecco perché la moda francese continua a divertirci di più

Si chiude la Paris Fashion Week. Una volta varcate le Alpi, si torna a respirare. La strategia della grandeur, l'orgoglio per la bellezza senza infingimenti, dunque senza la pesantezza infinita della morale, si vedono ovunque

Fabiana Giacomotti

Prima di scrivere queste righe abbiamo voluto attendere la sfilata di Louis Vuitton, tradizionalmente l’ultima del calendario parigino del pret-à-porter, per essere proprio sicure di quanto avremmo scritto. Ci eravamo dette che la collaborazione del direttore creativo Nicolas Ghesquière con la bottega Fornasetti avrebbe magari avvicinato lo stile degli show a cui avevamo assistito in questi giorni dalla nostra scrivania a quello degli allestimenti della scorsa settimana per la Milano Fashion Week. E invece no. Erano proprio parigini. E cioè, duole molto dirlo, più sfacciati, più irriverenti, più gioiosi, più divertenti. La moda-per-la-moda, fra salti e risate, senza colpe, senza sentirsi costretti a giustificare la propria esistenza e l’evidenza di produrre vestiti, che in Italia continua a essere il grande problema, la ragione alla base delle difficoltà del sistema della moda di ottenere udienza e sostegno dalle istituzioni nonostante rappresenti la seconda voce nella bilancia dei pagamenti.

  

La gente sa benissimo che circa un milione di persone vive di moda. Eppure, soffre indicibilmente all’idea che queste stesse persone, a rischio licenziamento più di ogni altro considerato il calo di fatturato medio del settore attorno al 30 per cento (ieri i dati di bilancio di Ferragamo hanno ulteriormente confermato la tendenza), ricevano sussidi o anche semplice attenzione. Scriviamo queste stesse righe da vent’anni. E in vent’anni nulla è cambiato, insieme con l’approccio minimale o cervellotico dei nostri stilisti per farsi prendere sul serio.

 

Una volta varcate le Alpi, si torna a respirare. Per sei giorni abbiamo aspettato il link alle sfilate con quello stesso friccicore che ci coglieva negli anni felici del pre-Covid, quando passavamo da una sfilata al Louvre a una cena all’Avenue. Era divertentissima nelle sue maglie lavorate e nei mega stivaloni pelosi da neve, (look semplici e come si sarebbe detto un tempo “scomponibili”), anche la sfilata di Miu Miu, marchio del gruppo Prada come si sa, benché fosse visibilmente registrata a Cortina. Era tutto italiano, eppure era pervaso da quello spirito di cui noi, esecratori biblici del lusso e della vanitas vanitatum, non siamo capaci dai tempi di Catone il censore e della prima legge contro il lusso, duemilacinquecento anni fa. Eppure, la Francia nasce dalla stessa tradizione cristiano-giudaica, e soffocò la riforma ugonotta, e lo spirito pragmatico e proattivo tanto esecrato dal cattolicesimo nel sangue.

 

Dunque? Dunque, “loro” hanno goduto della celebrazione del lusso fin da quando il lusso francese veniva importato dall’Italia, insieme con il gusto, e nulla ce lo ha reso più evidente che seguire dalla Galérie des Glaces di Versailles la bellissima e abilissima collezione di Maria Grazia Chiuri per Dior, ispirata alle fiabe anche nel loro coté più crudele per la natura femminile (cioè, quasi tutte). La strategia della grandeur, l’orgoglio per la bellezza senza infingimenti, dunque senza la pesantezza infinita della morale, si vedono ovunque: nei corpetti di piume e nelle andrienne settecentesche rivisitate di Bruno Sialelli per Lanvin come nella rilettura degli Anni Ottanta di Paco Rabanne e un po’ di tutti (molte spalle sovradimensionate, molti volumi over, molte gonne arricciate di tulle come quelle che portavamo noi cinquantenni al liceo, infiniti blouson di cuoio di cui moltissimi chez Balmain, dove Olivier Rousteing ha rivisto le spalline Anni Quaranta degli ultimi anni e riscoperto le arricciature in verticale). La moda francese charme e voglia di ridere e cantare (andate a cercarvi dame Vivienne Westwood che canta "I could have danced all night" dal musical My fair Lady) quanto quella italiana vorrebbe trovare un aggancio con gli accademici Lincei. E’ la sua forza. E un po’ la sua condanna.

  

  

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